La famiglia Regeni, con la sua caparbia e necessaria ricerca della verità, non sfida solo uno Stato. Sfida un sistema monolitico di potere in cui interessi economici, strategia politica e autoritarismo si intrecciano nelle mani dei responsabili, diretti e indiretti, della morte di Giulio.

Le apparenti spaccature dentro il governo egiziano tra Ministero degli Esteri (che ancora ieri ribadiva al quotidiano al-Shorouq l’intenzione di collaborare con l’Italia) e il Ministero degli Interni (intenzionato a salvarsi dalla tempesta) possono essere relegate in un angolo, esercizi filosofici che difficilmente si tradurrano in un reale cambiamento degli equilibri nazionali. Non è un caso che, nonostante le pressioni dell’opinione pubblica italiana e dei media indipendenti egiziani, il parlamento resti in silenzio, spettatore passivo di un regime che opera in totale autonomia.

Per capire l’Egitto del presidente-generale basta guardare a chi detiene il potere economico. Il Cairo uscito dalle ceneri di una rivoluzione senza precedenti è ancora preda dell’esercito. Un potere radicato da ben prima di Gamal Abd el-Nasser e oggi sempre più tentacolare. Su questo si fonda il regime del golpista al-Sisi e del suo Ministero degli Interni, la mano che gestisce forze di sicurezza e servizi segreti, vera autorità interna in uno Stato di polizia.

Abdel Fattah al-Sisi non gode di un partito politico d’appoggio, di una forza parlamentare a cui sostenersi. Perché il parlamento non è la chiave per il controllo dell’opinione pubblica, ma lo è l’esercito, unica sua fonte di legittimazione politica. Al-Sisi ha l’esercito e l’esercito ha la ricchezza. E la ricchezza porta con sé influenza politica, autorità sociale, posti di lavoro in una fase di recessione, reti clientelari fedeli per interesse.

Da quando ha assunto il potere con la forza, il presidente-generale ha emesso 263 decreti presidenziali. Di questi 32 hanno a che fare con l’esercito: ha aumentato del 10% gli assegni pensionistici dei militari; ha autorizzato la Difesa a creare compagnie di sicurezza private; ha dato alla Lands Projects Agency, compagnia dell’esercito nata nel 1981, il potere di lanciarsi nel settore commerciale per fare profitto. Ovviamente senza pagare le tasse e sfruttando come manodopera gratuita i giovani chiamati alla leva.

I numeri sono esorbitanti, un business coperto dal segreto di Stato che rappresenterebbe – secondo stime di fonti indipendenti – il 35-40% del prodotto interno lordo. Oltre un terzo dell’economia di un paese di 85 milioni di persone, di cui una parte è attribuibile alle forze armate e una parte al Ministero degli Interni. Al-Sisi, in un’intervista del 2014, negò e parlò di una fetta minima dell’economia nazionale: non più del 2% del Pil. Ma due anni prima l’allora vice ministro per gli Affari Finanziari, il generale Mohamed Nasr, rivelò entrate pari a 198 milioni di dollari.

L’esercito controlla innumerevoli compagnie private, dal settore delle costruzioni a quello agricolo, dal turismo alla sanità. Fino alla produzione di fertilizzanti: a novembre al-Sisi ha annunciato la creazione di un’industria di fertilizzanti, affidata alla compagnia el-Nasr di proprietà delle forze armate, che sfornerà un milione di tonnellate l’anno in nove diversi impianti.

Dietro sta la National Service Projects Organization, ente creato dall’esercito nel 1979 per soddisfare le necessità di consumo delle forze armate ma ben presto diventato così potente da vendere l’ingente surplus al mercato interno egiziano. Produce e vende di tutto, pasta, acqua minerale, benzina, cemento, frigoriferi, tv, computer. Allo stesso tempo, all’esercito vengono affidati i progetti infrastrutturali più redditizi: l’allargamento del Canale di Suez, 9 miliardi di dollari; l’aeroporto di Sohag e il porto di Gurghada; ponti, stadi, ospedali e strade; e ora il mega progetto di trasformazione di 600mila ettari di deserto in terra coltivabile.

Il sistema si fonda su un oligopolio impossibile da scalfire: prima il potere politico rappresentato dal governo concede appalti alle aziende legate alle forze armate; poi quelle stesse aziende producono beni e servizi a costi più bassi di quelli del settore privato civile, mangiandosi buona parte della domanda di consumo. Fuori resta il popolo egiziano, costretto nel limbo della crisi economica, del gap di investimenti tra centro e periferia, dell’indebolimento delle piccole e medie imprese soffocate da tasse e concorrenza sleale, dell’assenza di opportunità di lavoro. La risposta è spesso la stessa: clientelismo, favori, fedeltà all’élite politico-economica per entrare nell’ingranaggio.

E il parlamento egiziano non ha voce in capitolo: non ha il diritto di conoscere il budget reale delle forze armate, il valore delle terre pubbliche possedute, i tentacolari interessi economici dei vertici dell’esercito. Né tantomeno ha il potere di sottoporre a controlli o supervisioni i progetti commerciali ed economici dei militari. Nonostante ciò, ci prova ancora: un gruppo di parlamentari sta lavorando a disegni di legge volti ad ottenere risposte definitive a richieste rimaste sempre inevase. Gli assetti economici dell’esercito, dice un parlamentare in anonimato al sito web Al-Monitor, si sta espandendo di anno in anno ma «l’interesse nazionale impedisce al parlamento di aprire un’inchiesta».