Option. Spuren der Erinnerung era scritto a grandi lettere gialle sull’immagine di persone in marcia in un paesaggio alpino per annunciare lo spettacolo-documento Opzione. Tracce di ricordi. Narrava, a 75 anni di distanza, alcune testimonianze dirette di persone che quel periodo l’avevano vissuto nel lontano 1939. Che cosa significa questo termine, opzione? Me l’avevano chiesto in tanti quando avevo collaborato in veste di aiuto-produzione e aiuto-regia al film televisivo in due parti diretto da Karin Brandauer (moglie del più noto Klaus Maria, morta troppo presto all’età di 44 anni) dal titolo più che esplicito Verkaufte Heimat ossia «La patria venduta» (coprodotto dalla tedesca Zdf, l’austriaca Orf e la Rai di Bolzano fu trasmesso soltanto nella zona dell’Alto Adige, nel 1991, oltre che sulle reti austriache e tedesche; il film conta sulla prima apparizione di Ivan Marescotti nei panni di un «podestà»). Di opzione si era iniziato a parlare nell’estate del 1939, dopo l’accordo tra Hitler e Mussolini per porre fine alla patata bollente del Sudtirolo: terra di confine – con una maggioranza di abitanti di lingua tedesca, che poi a loro volta sono una minoranza in Italia, lo stato a cui fu annessa al termine della prima guerra mondiale, nel 1918, avendo fatto parte fino a quella data – assieme all’adiacente provincia Trentino – dell’impero austro-ungarico che a seguito del primo grande conflitto mondiale, del cui inizio, nel 1914, quest’anno si celebra un po’ ovunque nei suoi luoghi di inizio e di combattimento il centenario, era andato sfaldandosi in mille pezzi. Giunto al potere Mussolini, nel 1922, il duce fece partire l’italianizzazione coatta con la costruzione di fabbriche, centrali elettriche, eccetera, per farvi lavorare i numerosi operai «importati» dalle regioni del sud, soprattutto da Calabria, Puglia e Sicilia.
Pressioni di regime
Contemporaneamente fu vietato l’uso della lingua tedesca in ogni luogo pubblico, piazze e strade comprese. A scuola s’insegnava unicamente in lingua italiana e Tolomei, difensore della lingua della (sua) patria sin dalla prima ora – fu lui a disegnare le famose cartine in cui esplicitava la massa di cittadini italiani contro la poca massa di cittadini di madre lingua tedesca in area dell’Alto Adige datata 1922 -, si era impegnato a fondo per tradurre i nomi di paesi, città, montagne, fiumi, ecc. (usando non poco la fantasia per la traduzione letterale, oggetto ancora oggi di feroci discussioni). C’era, a dir poco, alta, anzi altissima, tensione tra le persone italiane immigrate per lo più fasciste (e di qui nacque la convinzione che italiano=fascista, perdurata ben oltre la fine della seconda guerra mondiale, così come l’equazione, dall’altra parte, di tedesco=nazista), motivo per cui, appena firmato il patto d’acciaio ai fini della costruzione dell’asse Roma-Berlino era nata la cosiddetta «soluzione finale» per il Sudtirolo: chi tra i cittadini di lingua tedesca voleva recarsi nella grande Germania, poteva (anzi, doveva!) «optare» per il Terzo Reich, chi invece voleva rimanere nella propria terra, «poteva» optare per l’Italia, fascista, sia ben chiaro. All’epoca, la notizia fu diffusa assai poco dai mezzi di comunicazione e passava per lo più di bocca in bocca, creando non poca confusione. Parecchie furono le persone influenzate dalla pressione subìta dal regime fascista, oppure dalle minacce che le volevano spedite direttamente in Sicilia; in molti, sperarono di trovare una situazione migliore oltre il Brennero.
Di fatto, quasi l’80% della popolazione di lingua tedesca aveva deciso di farsi trasferire nelle zone promesse: dapprima si era parlato della Borgogna in Francia, della Polonia (dal settembre 1939 in poi, dopo aver invaso il paese) e infine della Moldavia. Nell’aprile 1942 si era aggiunta, per un breve periodo, anche la Crimea dopo essere stata occupata dalle truppe naziste.
I cosiddetti «optanti» dovettero vendere le loro proprietà (masi o fattorie con vigneti e/o piantagioni di mele) per ricomprarle allo stesso prezzo nel luogo d’arrivo. Scelta non facile e molte famiglie si spaccarono tra «coloro che se ne andarono» e «coloro che restarono». Sul palco del Teatro Stabile di Bolzano erano saliti in dieci per raccontare le proprie memorie di quei tempi nello spettacolo costruito con musiche, riprese in video registrate e in diretta, intervallate da annunci e letture di brani dalle linee guida e di telegrammi inviati dai gerarchi nazisti, recitate dai quattro attori a mo’ di strilloni. Le umiliazioni subìte erano forti, se si apparteneva a famiglie che decisero di restare perché considerati traditori della patria, ma non erano da meno anche oltre confine.
L’illusione del futuro
Non di rado era accaduto che le fattorie promesse erano state sequestrate a contadini o cacciati a loro volta oppure costretti a far da servi ai nuovi padroni, i quali si sentirono non poco a disagio scoprendo la verità. C’era anche, sul palco, chi ebbe il coraggio di dire pubblicamente che il proprio padre, nazista convinto, si era spostato a Monaco alla prim’ora e che poi, a guerra finita, riconobbe il proprio abbaglio. Per farla finita con le menzogne storiche che troppo a lungo avevano seppellito queste storie nell’oblìo.
Il grande interrogativo fu – e rimane ancor oggi, almeno per me: chi aveva optato per il Grande Reich lo fece per scappare dal regime fascista o perché seguace della politica hitleriana? Chi aveva deciso di non optare, fu davvero per rimanere nella propria terra e combattere per la libertà o piuttosto per aderire al regime mussoliniano? Fu lo storico Leopold Steurer a iniziare le ricerche negli anni settanta per portare alla luce storie di opzioni e storie di resistenza (anche) in Alto Adige.
Nello spettacolo andato in scena a Bolzano (a fine febbraio) ci si era limitati a indicare che coloro che erano rimasti, avevano accolto coloro che nel 1945 erano ritornati (i cosiddetti Rückoptanten, optanti di ritorno) per aiutarli nel ricostruirsi una vita essendo rimasti per la maggior parte senza averi, né casa, né terra, né mobili, né denaro: avevano perso tutto credendo in quelle promesse vane.