Era il 1956, e la Gran Bretagna si leccava le ferite auto-inferte del dopo-Suez. Dean Acheson, l’allora segretario di Stato americano, commentò la spacconata imperialistica di Anthony Eden con l’emblematica massima: «La Gran Bretagna ha perduto un impero e non ha ancora trovato un ruolo». Da allora, tutta la politica estera britannica, culminata con l’ingresso nella comunità europea seguito dal referendum del 1975 che ne ribadì la permanenza, è stata un tentativo di sbugiardare questa verità ed elaborare il meritato lutto, alla ricerca del ruolo perduto. Che sarebbe diventato quello di fare da legato apostolico a Bruxelles dell’influenza statunitense.

Ora si trova a meno due settimane scarse da un potenziale «Uk anno zero»: un risveglio la mattina del 24 giugno in cui il Leave ha vinto, il paese è fuori dell’Unione Europea e una serie di scenari di cui nessuno è in grado di tratteggiare nettamente i contorni che si spalanca. A parte forse il nein che Wolfgang Schäuble ha già sbarrato (in un’intervista rilasciata allo Spiegel che uscirà oggi) alla possibilità di essere ammessi al mercato unico pur non facendone parte, alla quale erano appesi i sostenitori del Leave. I sondaggi danno 45% al Remain e 43% per l’uscita. Entrambi i maggiori partiti sono spaccati, essendo questa una questione perfettamente trasversale. Certo, i Libdem sono pro Eu, ma ormai fanno i congressi dentro i monolocali.

Sia a destra, al centro e a sinistra la lista di valide ragioni per restare o andarsene è lunga e articolata. Ma se finora la questione sta provocando contusioni tra i conservatori (i partigiani blu del Remain ormai accusano apertamente Boris Johnson di pensare soltanto a Downing Street) il Labour di Corbyn ha pure lui i suoi dilemmi. Esacerbati dal Left Leave, il fronte euroscettico della sinistra cosiddetta radicale che, sotto l’ennesima, immaginifica sigla «Lexit» raccoglie i rivoluzionari trotzkisti del Swp e altre realtà con la priorità di uscire da un consesso soggetto al bullismo di Berlino, che ha messo in ginocchio la Grecia e materializzerebbe l’incubo del Ttip.

E mentre, proprio ieri, altri due deputati laburisti, John Mann e il veterano Dennis Skinner, si dicevano pro-exit, Andy Burnham, ministro ombra dell’interno ed ex-rivale di Corbyn alla segreteria, ammoniva che il Remain rischia di perdere. Consegnando il paese non solo alla frammentazione – e qui pensa senz’altro alla Scozia nazionalista di Nicola Sturgeon – ma a un effetto domino che potrebbe riverberarsi sull’Ue stessa, sospingendo altri membri già recalcitranti, come l’Olanda, sul ciglio dell’uscita.

Gli elettori centristi, quelli che hanno mal digerito Corbyn, sono pro-Ue sin da quando il New Labour di Blair – via Neil Kinnock – aveva visto la sconfitta dell’euroscetticismo socialista come strumento egemonico alla scalata del partito. E sono, secondo Burnham, dei convertiti ai quali è inutile predicare. Le aree più working class dell’elettorato Labour sono euroscettiche, il partito non sta facendo abbastanza per persuaderle a rimanere. E lo sono perché colpite in prima persona dal problema dell’immigrazione – su cui ormai il Leave insiste come un disco rotto – e della disoccupazione. Lo conferma un sondaggio Yougov commissionato dal Financial Times: gli abitanti di regioni socialmente più disagiate, come l’East Midlands, lo Yorkshire e l’Humberside, sono più per l’uscita.

Alle critiche della leadership di Burnham si sommano gli interventi del vice-segretario Tom Watson e dell’ex leader Ed Miliband, che stanno anche loro raddoppiando gli sforzi per compensare l’inerzia di Corbyn, il primo sostenendo che l’uscita porterebbe i Tories a tagliare altri 18 miliardi di welfare una volta usciti dall’Unione, il secondo che una exit significherebbe un assalto ai diritti dei lavoratori, una posizione in aperto contrasto con il «fuoruscitismo» di sinistra. Quanto a Corbyn, è nella solita posizione ostica: nel nome di un’unità del partito da mantenere a tutti i costi , è stato costretto a inghiottire l’amaro calice del Remain, contravvenendo a tutto il suo passato di militanza anti-Ue.

In effetti, la situazione oggi ricorda quella del referendum 1975, ma capovolta: allora erano i Tories di Thatcher a invocare la permanenza nella Comunità Europea, nel nome dell’ultraliberismo che li ha sempre contraddistinti.

Ed era Tony Benn, il padre spirituale di Corbyn e leader della sinistra labour di allora, a vederla come un club di padroni. Al punto da turarsi il naso e comparire a fianco di euroscettici come Enoch Powell, leader della destra razzista Tory. Da benniano qual è, Corbyn si è dovuto calare nel ruolo di fervido sostenitore di qualcosa in cui non crede affatto, e nel nome di un realismo politico che non gli appartiene. Ed essendo un pessimo attore, ha fatto una serie di anodini interventi, sostenendo che è meglio difendere i diritti dei lavoratori dall’interno dell’Ue, nonostante il club di partiti socialdemocratici europei al momento al potere in Europa contenga zelanti distruttori dello stato sociale e del diritto del lavoro.

Non gli sarà sfuggito che proprio la difesa del lavoro in salsa Ue ha contribuito a produrre loschi beneficiari dei contratti a zero ore come Mike Ashley, il boss della Sports Direct, al momento inquisito per osceno trattamento delle maestranze, e la torbida vicenda del gruppo di abbigliamento BHS, fallito dopo una serie di allegri e remunerativi passaggi di mano che hanno bruciato 11.000 posti di lavoro.

Corbyn ha evitato di comparire sullo stesso palco con David Cameron & Co. tanto a quello ci pensano i colleghi alla sua destra. Come Tony Blair, che, forse per distrarsi un attimo dall’esito imminente della Chilcot Enquiry, ha fatto giorni fa una comparsata con l’ex successore di Thatcher John Major, probabilmente regalando un altro balzo in avanti alla causa che intende contrastare.