Ci sono dei colori in Inside, opera nuova di Playdead, lo studio indipendente danese che nel 2010 ci trasportò nell’ultraterrena disperazione in bianco e nero di Limbo, ma sono tinte malate, come aggredite da un virus che nega la loro anima cromatica e le rende dolorose da osservare, pervertite da un’artificiale luce crudele che le deforma con un grigiore avvilente. Uscito in formato digitale per XBox One e Pc, Inside possiede la concisione esemplare di un racconto di Dick e la stessa profondità inquietante. Così Inside favorisce gravi meditazioni e paranoiche speculazioni mentre intrattiene, risultando deprimente quanto illuminante.

Si tratta di un sonetto digitale dalla tristezza abissale il cui ricordo permarrà oltre le poche ore necessarie al suo svolgimento, deformandosi o rivelandosi attraverso le domande angoscianti postetramite il linguaggio elettronico del gioco puro che non necessita di nessuna parola per essere espresso. Non facciamo altro che muoverci in ambienti disegnati in due dimensioni, risolvendo enigmi ambientali non così complessi da rallentare il progresso dell’avventura, saltando e correndo fino all’ accelerazione emozionale dell’ultima mezz’ora di gioco. Come in Limbo sono quindi solo le immagini che suggeriscono un contesto narrativo, che sospirano una trama senza mai dichiararla, mentre chi gioca traduce soggettivamente la visione di Playdead attraverso l’azione ludica.

Siamo da subito dentro il gioco, basta una minima pressione sullo stick durante la schermata con il titolo per iniziare a controllare un bambino che ruzzola giù per il declivio erboso di una selva. Realizziamo di essere fuggiti, evasi e profughi in un ambiente ostile dove uomini armati continuano a darci la caccia con l’ausilio di cani da guardia inclini a sbranarci o di macchine che ci arpionano senza pietà, trasformandoci in marionette spezzate e senza vita. Vaghiamo in cerca di una salvezza impossibile per un immenso laboratorio-prigione i cui confini sono un’ utopia, ci sentiamo insetti torturati e intrappolati in un contenitore di vetro scrutati dallo sguardo crudele di bambini sadici, cavie di un esperimento del quale non capiamo il senso, come gli animali in un mattatoio non comprendono la ragione della propria mattanza.

Ci sono rarissimi momenti in cui la tensione alla sopravvivenza, la pressione potente dei quesiti e l’oppressione sconsolante di situazioni claustrofobiche o agorafobiche, si sciolgono in un dolce, inaspettato lirismo che ci induce a sperare davvero nella salvezza; ed è per questo che continuiamo, perché senza che lo realizzassimo consciamente l’identificazione nel bimbo smarrito è già potentissima, così nella palude asfissiante di tanto inconcepibile squallore possiamo intravedere ragioni di speranza.

Da giocare tutta in una notte per poi non riuscire più ad addormentarsi in preda a quesiti esistenziali, l’opera seconda di Playdead ribadisce l’unicità dell’arte videoludica dello studio di Copenhagen, un capolavoro che ci ferisce mentre ci diverte con le sue dinamiche elementari ma essenziali in maniera sublime, tanto che anche un non-videogiocatore potrebbe completarlo. Inside non ci spiega nulla, si lascia contemplare lasciandoci turbati e attoniti, atterriti che il suo ultimo significato sia la totale, universale e ingiusta mancanza di ogni Significato.