Scena: una saletta dello studio meneghino di via Melchiorre Gioia 55 dove sono nati film come West and Soda, Allegro non troppo o Vip – Mio fratello superuomo e dove dal 2007, con la sigla Studio Bozzetto & Co., Andrea Bozzetto e Pietro Pinetti sfornano animazioni per cinema, tv e pubblicità. L’appuntamento è con il padre nobile dell’animazione italiana, di nuovo nelle sale con i suoi film e il documentario Bozzetto non troppo di Marco Bonfanti, oltre che in mostra con disegni e materiali originali di produzione fino al 31 ottobre al monastero di Astino, vicino Bergamo. Ad accoglierti è un signore snello nel fisico e nei modi, alla mano, consapevole dei propri meriti ma tutt’altro che appagato.

 

 

Cominciamo dall’appellativo che ti segue ovunque e che a quanto so ti fa venire l’orticaria: «Maestro».
È un termine che ho sempre trovato ridicolo e al quale ho tentato di ribellarmi finché non hanno cominciato a usarlo tutti. A quel punto mi sono arreso. Ma se c’è un termine che odio è proprio «Maestro». Che mi chiamino autore, creativo, artista. Ma «Maestro» proprio no. Non faccio mica il professore!

 

 

Vecchio vizio italiano, celebrare le arti a parole, invece che con i fatti.
Vero. È proprio per questo che dal 1987 in sala non arriva più nulla di mio. Finché potevo permettermi di produrre in proprio, nessun problema. Ma nel momento in cui ho dovuto aprire ad altri apporti in termini di budget, controllo creativo e distribuzione la festa è finita. In questi anni ho elaborato diverse idee di lungometraggi, una anche piuttosto recente. Però sono ancora lì chiuse in un cassetto, perché eccetto me non ha voluto crederci nessuno. I miei film «classici» avevano tutti una cosa in comune: l’entusiasmo con cui li abbiamo realizzati. Se invece ti ritrovi invischiato in un meccanismo produttivo che prevede mesi e mesi di attese, riunioni, indecisioni e false partenze, addio entusiasmo e addio film.

 

 

Tornando ai tuoi film «classici», oggi sono considerati appunto Classici animati. Ma fra gli Anni ’60 e ’70, come ci si sentiva a sfidare un colosso quale la Disney?
Come un mattone di fronte alla Grande muraglia cinese. Ma non è che nutrissi particolari velleità da cineasta. Facevo i miei esperimenti per passione, però studiando Legge. Fu mio padre Umberto, presidente di un Circolo milanese che noleggiava i film in 16 mm dello United States Information Service, a prendere l’abitudine di prestarmeli prima di restituirli perché potessi studiarmeli su una piccola moviola manuale. E su quei cartoni fatti con due tratti, però intelligentissimi, ho imparato l’animazione. Capendo che non c’era solo Disney e che per fare cartoon essere un grande disegnatore non serviva. Di mio ci ho aggiunto il senso della prospettiva ereditato dal nonno pittore, il gusto del ritmo e del montaggio «rubato» al cinema che amavo, quello di Tati. E l’intuizione che con i disegni animati si può parlare anche agli adulti, non solo ai bambini, perché in fondo per fare un buon film serve una buona storia. E avendo alle spalle un liceo classico, nel 1958 ho pensato di mettere a frutto la mia cultura umanistica con il corto Tapum! La storia delle armi.

 

 

Nel cinema animato, insomma, conta più il contenuto che lo stile.
Infatti, la mia urgenza non era disegnare, semmai volevo raccontare. E in testa non avevo fiabe, ma trame adulte. In questo, forse, non mi sento un Maestro, ma un precursore sì. West and Soda, che oggi passa per un film per ragazzi, a ben guardare non lo è mai stato. Nel 1965, gli spettatori più piccoli lo vedevano come un western. Ma per gli adulti era una parodia. È un po’ quello che fanno oggi alla Pixar: film che toccano corde diverse a seconda dell’età. Ma allora proposte del genere erano un bell’azzardo: finito West, cercando un distributore, mi ritrovai in Cineriz. Dove mi chiesero perché non avessi girato una bella fiaba tipo Biancaneve. Poi il film è uscito, la gente ha cominciato a riempire le sale e la cassiera di un cinema mi ha raccontato che Celentano era tornato a vederlo tre volte. Lì ho capito di aver fatto qualcosa di buono.

 

 

Forse c’entra qualcosa anche il cosiddetto «Stile Bozzetto», un po’ un unicum in un contesto di cartoni animati politicamente corretti.
Anche in quel senso si è trattato in egual misura di impegno e fortuna. Negli Anni 60, sull’onda del successo di Il signor Rossi, avevo cominciato a partecipare ai festival, e all’epoca ero l’unico italiano a farlo. E come nelle barzellette, mi confrontavo con inglesi, francesi e americani, apprendendo modi di disegnare e narrare che da noi non erano ancora arrivati. Poi sperimentavo.

 

 

Perché a parte Andrea e Fabio Bozzetto nessuno oggi segue più il tuo approccio?
Per prima cosa ho avuto un grande successo di critica ma non ho mai fatto i miliardi. Quindi, come businessman non sono mai stato un grande esempio. Dopodiché, io e gli altri cineasti con cui condividevo le mie avventure, come Guido Manuli, che era il mio braccio destro e ha svolto un lavoro enorme, lavoravamo in totale libertà. E qui torno a quello che dicevo prima: oggi, fare animazione significa stare in una cucina con troppi cuochi. C’è chi vuole il film per bambini, chi esige il delineo facile facile, chi mette becco sul soggetto: ogni produzione è un’impresa. Noi, invece, eravamo dei selvaggi. Ti veniva una bella pensata? La realizzavi, e chissenefrega. Lo facevamo per noi stessi, non per il pubblico. Se contamini il processo creativo con ubbie meramente commerciali, è finita. La libertà creativa è fondamentale. Ti espone a dei rischi, ma in termini di valore ti ripaga sempre.

 

 

Tu sei uno dei pochi grandi autori che siano passati direttamente dalla matita al computer senza apparente fatica.
Ribadisco: se un’idea funziona, funziona in qualunque modo. Dal vero, a matita, usando un software come Flash. Che, per giunta, si sobbarca tutti i disegni intermedi fra una posa chiave e l’altra risparmiandomi un sacco di tempo e lavoro. E, di nuovo, l’importanza del segno è relativa: pensa a Europa vs. Italia, tutto costruito con bandierine e rettangoli, ma nonostante questo narrativamente efficacissimo. Oggi, ai festival, i film più premiati sono caratterizzati da un realismo visivo stupefacente, ma da una certa aridità narrativa. Questo per me è un limite, perché mi ostino a pensare che il cinema sia innanzitutto comunicazione

 

 

Qualche esempio recente che ti ha colpito favorevolmente.
Mi è piaciuto molto Inside Out, nel secondo tempo cala un po’ per esigenze di spettacolo ma l’ambientazione nella mente della giovane protagonista è geniale sia nel concept che nella realizzazione. Stupendo anche La canzone del mare, il film dell’irlandese Tomm Moore uscito di recente. Ma sono progetti che in Italia sarebbe molto difficile concretizzare, visti i problemi produttivi e gli interessi in gioco.

 

 

Ci sarà pure un modo per migliorare le cose.
Come succede in Gran Bretagna o in Francia, servirebbe un’intervento statale. Se alla base di un progetto ci fosse una Rete o un’istituzione pronta a farsi carico di metà del budget, i film coraggiosi avrebbero ben altre possibilità di andare in porto. Finché ad affrontare i rigori del mercato sono i soli cineasti, sarà tutto più difficile: per realizzare il suo Pinocchio ispirato a Mattotti, Enzo d’Alò ha dovuto sorbirsi dieci anni di trattative. Così non va. In Italia abbiamo ottimi animatori e ottimi registi. Ma ogni progetto valido, quando c’è, va supportato.