La scorsa settimana al Los Angeles Sports Arena era il tutto esaurito e qualche migliaio di persone hanno dovuto accontentarsi degli schermi sistemati fuori dal palazzetto dello sport. Significa che c’erano più di 25 mila persone al comizio di Bernie Sanders, un numero impressionante anche per lui che in questo prodromo di primarie presidenziali si sta convertendo nella sorpresa della stagione politica Usa.

Quasi nessuno avrebbe pronosticato ad aprile, quando il 73enne senatore “socialista” del Vermont aveva annunciato l’intenzione di sfidare Hillary Clinton per la nomination democratica, che in pochi mesi la sua campagna si sarebbe concretizzata in una effettiva candidatura. Eppure dietro allo slogan Feel the burn quella di Sanders è una delle poche campagne capace di accendere una vera passione. E gli ultimi sondaggi in New Hampshire dove fra sei mesi si terrà la prima delle primarie, lo danno addirittura in vantaggio sulla “predestinata” ex first lady per 44 a 37.

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Due sostenitrici di Sanders

Allo Sports Arena la folla era composta in gran prevalenza da giovani, studenti universitari e liceali, ragazzi arrivati per passaparola sui social e liberals in preda al presentimento post-Obama. Una folla che in effetti ricordava parecchio quelle dei primi comizi del presidente, quasi sette anni fa, compresi alcuni degli speaker sul palco – come Sarah Silverman, comica dissacrante con grande seguito millennial che ha inanellato battute sulla equivoca pronuncia del cognome dei mecenati reazionari fratelli Koch. Poi ambientalisti, organizzatori di base, sindacalisti susseguitisi per affermare che «Bernie» è l’unico candidato della gente fra la schiera di politici sponsorizzati da interessi forti.

Quando è toccato al candidato, Sanders ha elencato per circa un ora i punti che definiscono il suo programma: eguaglianza economica, rete sociale, ambiente, educazione. Il pubblico lo ha accolto con un mare ondeggiante di telefonini accesi e applausi a ripetizione, più come una rockstar che come un canuto signore settuagenario. (Un tizio in platea aveva una maglietta con scritto «aiutaci tu Obi Wan», riferimento alla figura di Alec Guiness in Guerre Stellari, benevola e paterna, che Sanders vagamente evoca).

Idealismo giovanile

Figlio di ebrei newyorchesi (il padre, polacco, sopravvissuto alla Shoah), Sanders ha studiato al Brooklyn College e poi alla University of Chicago dove nel ‘63 era iscritto alla lega dei giovani socialisti. Sono gli anni del movimento per i diritti civili, le freedom rides nel sud segregato a cui Sanders partecipa, come alla marcia su Washington di Martin Luther King. Il suo impegno politico coincide con la controcultura dei sixties, è membro dello student nonviolent coordinating committee, la formazione studentesca antirazzista che sarà incubatrice di esperienze come le Black panthers e i Weather underground. Negli anni successivi la lotta è quella contro la guerra nel Vietnam, ma nel frattempo Sanders, dopo un esperienza in kibbutz, si è trasferito in Vermont e concretizza l’idealismo giovanile nelle prime cariche politiche, prima da sindaco di Burlington e in seguito al congresso.
Non era chiaro quanto potesse fare testo il suo successo di riformatore rooseveltiano, dichiaratamente socialdemocratico, una volta varcati i confini della sua verde utopia “scandinava”. Ma il suo messaggio anti liberista, anti oligarchico, contro gli interessi di banche e milionari a favore dei lavoratori ha in qualche modo formulato con successo le istanze del fianco sinistro obamiano in sottintesa polemica con Hillary, candidata di “sistema”, falco filoisraeliano, con profondi legami all’establishment con Wall Street e una decennale carriera di insider politica con tutti i compromessi che può comportare. Una figura insomma che stenta ad esaltare una nutrita schiera di democratici che chiaramente rimpiangono l’entusiasmo obamiano.

Una coalizione trasversale

La chiave del successo dell’attuale presidente è stata la coalizione trasversale fra base tradizionale, sindacati, partito, giovani, donne e minoranze. Per riuscire a prevalere sulla macchina dei finanziamenti repubblicani, il candidato democratco dovrà riuscire a duplicare quella ricetta. Compreso Sanders, per cui è giunto il momento di allargare il proprio appeal oltre allo zoccolo progressista. Al suo comizio di Seattle, che è coinciso con la settimana di proteste a Ferguson, militanti di Black Lives Matter si sono impadroniti del palco di Sanders per rivendicare giustizia razziale. Una scena reminiscente delle tensioni fra militanti neri e studenti della sua gioventù.

Sanders ha replicato nominando a nuova portavoce nazionale l’afroamericana Symone Sanders, ma è chiaro che dovrà tessere rapporti più saldi con un elettorato con cui ha – almeno geograficamente – per ora poco in comune. Neri e ispanici saranno crucali ad ogni speranza di successo finale. Clinton ha profondi legami storici con entrambi i segmenti, ma Sanders è titolare di un entusiasmo che Hillary stenta a generare.

Disagio progressista

Fermo restando che alle elezioni manca più di un anno e che i giochi sono dunque lungi dall’essere conclusi, o anche solo ben definiti, è innegabile che Sanders abbia intanto riaperto una gara che sembrava conclusa in partenza con un’investitura preventiva di Hillary Clinton.

La sua campgana articola il disagio che Hillary oggettivamente genera fra molti progressisti. Il suo successo, pur precoce, ha incoraggiato altri pretendenti come Jim Webb e Martin O’ Malley ed è probabile che all’effetto Bernie siano da attribuire le voci su ipotetiche candidature di Joe Biden e addirittura di Al Gore.