Lao Hu Zhou è in gabbia. La «vecchia tigre» Zhou Yongkang, ex numero nove dell’Ufficio centrale del Politburo, è ufficialmente sotto indagine «per gravi violazioni disciplinari», terminologia che il Partito utilizza per annunciare quelle che in seguito saranno precise accuse di corruzione. Era dai tempi della Rivoluzione culturale e dalla caduta della cosiddetta «banda dei Quattro», che un funzionario così potente e di così alto grado non veniva messo sotto indagine. Non è una sorpresa, del resto.

Il presidente Xi Jinping da almeno un anno e mezzo, ha lanciato una campagna anti corruzione che ha puntato verso la tigre Zhou (Xi aveva specificato, «colpiremo le mosche e le tigri»). Almeno duecento persone arrestate nell’ultimo anno, sarebbero membri di un più allargato clan referente a Zhou. Per lui, è presumibile si siano aperte la porte di quella pratica che proprio l’ex zar della sicurezza aveva reso celebre, ovvero lo shanggui, una procedura extra legale, riservata ai funzionari di Partito.

Procedura da vip
Zhou Yongkang è stato probabilmente prelevato giorni fa dalla sua casa, dove forse pensava di poter trascorrere la sua pensione (o forse no, un abile e astuto politico come lui, doveva sapere che prima o poi avrebbe ricevuto visite sgradite). Sarà stato portato in un hotel di lusso a Pechino, o appena fuori i primi anelli della metropoli.

In quell’hotel è al momento servito e riverito, e vi rimarrà durante tutto il tempo che ai temibili investigatori del Partito comunista cinese servirà, per «provare» le accuse già pronte contro Zhou. Il tempo ritenuto «necessario» non è stabilito da nessuna legge, è totalmente a discrezione di chi interroga. Persone che forse Zhou conosce molto bene. Forse addirittura suoi ex alleati. Lo shanggui non è una procedura legale, è riservato ai vip del Partito e di solito si conclude con una incriminazione ufficiale, l’espulsione e infine la condanna (tendenzialmente l’ergastolo).

Zhou conosce bene il metodo: tra il 2007 e il 2012 è stato il principale artefice del «mantenimento della stabilità», il chiodo ideologico su cui hanno appeso il comando Hu Jintao e Wen Jiabao. Mantenere la stabilità, significava colpire ogni minima forma di dissenso, falciare sul nascere fronde interne, consentire dunque l’espressione della «società armoniosa» nel suo massimo splendore. Zhou Yongkang era diventato così potente, che nel 2012 il Comitato centrale del Partito comunista ha dovuto diminuirne il ruolo. Zhou infatti era al centro delle trame più importanti: «mantenere la stabilità» significava infatti possedere il comando su tutto il reparto della sicurezza cinese.

Soldi su soldi
Durante il suo regno Zhou è riuscito ad ottenere soldi su soldi, tanto che il suo budget superava quello già mastodontico della Difesa nazionale. Significava inoltre controllare i gangli vitali del potere locale, quelli dei corridoi, delle riunioni segrete, delle epurazioni e del controllo sociale. Sventò a suo modo – con centinaia di arresti preventivi – la paventata «rivoluzione dei gelsomini» e dagli apparati della sicurezza, rapidamente, si impossessò niente meno che del settore petrolifero, attraverso figli, parenti, amici. Un impero, basato su sicurezza e petrolio, che lo spinse a fare il passo sbagliato, quello di troppo. Ad un certo punto Zhou si è sentito la gamba per provare la fuga decisiva, alla faccia della «gestione collettiva» del Partito.
E ha puntato tutto su Bo Xilai, il principino. I due sono accomunati anche dall’epoca del declino. In tre consecutive estati, Zhou e Bo sono crollati sotto la mannaia ideologica di un Partito che non apprezza i colpi di testa. Nell’agosto del 2012 Bo Xilai venne incriminato. Nell’agosto del 2013 venne processato (e poi condannato all’ergastolo).

E ora il suo mentore, o alleato, o padrino, che dir si voglia: terza estate nera per la fazione di Chongqing, la città nella quale tutto cominciò. Zhou paga quell’alleanza e quelle voci che si sparsero a Pechino, subito dopo la notizia dell’incriminazione di Bo Xilai. Zhou Yongkang avrebbe addirittura tentato un colpo di Stato. Voci, dicerie, chiacchiere raccolte da altre chiacchiere: è difficile trovare qualcuno a Pechino, personaggi che si vantano di sapere certe cose, che neghi quell’evento. Ed ecco che per Zhou l’anno scorso è stato un lento e inesorabile terreno di perdite. Arresti, indagini, accuse: tutto puntava a lui. La sua carriera politica, la sua vita da ex funzionario in pensione, è finita.

E nel giorno in cui Zhou crollava ufficialmente, nella regione autonoma uighura, in Xinjiang, ci sarebbe stato un attacco, che ha provocato almeno una dozzina di vittime civili. Secondo la polizia locale, un gruppo di uomini armati di coltelli avrebbe preso d’assalto una stazione di polizia e gli uffici governativi nella cittadina di Elixku, per poi spostarsi nella vicina Huangdi. Decine di civili di etnia uigura e han, sarebbero rimasti uccisi.