Siamo proprio sicuri che lo stato (desolante) dell’informazione politica in Italia rientri nella normalità, che assegna alla «struttura materiale dell’ideologia» la funzione di proteggere e consolidare l’establishment? Fosse così, non ci rassegneremmo, ma nemmeno avremmo la percezione di una situazione patologica.

In tutti i paesi del mondo, sotto qualsiasi regime, la «grande stampa» aiuta il potere. Riconoscerlo non implica equiparare sistemi totalitari e pluralistici. Né ignorare la rilevanza dei diritti di libertà e l’importanza della funzione svolta, nei sistemi pluralistici, dalla stampa indipendente e di opposizione. Resta che ovunque tra stampa e potere intercorrono rapporti di mutuo soccorso. Che il mondo dell’informazione è dappertutto contiguo ai luoghi del potere economico e politico. Che spesso il confine tra informazione e propaganda è labile e di difficile demarcazione. Ma c’è un ma.

O un limite, se si preferisce. Di norma la cooperazione tra stampa e potere non impedisce agli organi di informazione di operare anche come fattori costitutivi dell’opinione pubblica e suoi portavoce. Né preclude alla grande stampa una funzione di controllo e di stimolo – talora di denuncia – nei confronti delle altre istanze del potere. Si pensi, per esempio, al giornalismo d’inchiesta, ancora vivo in Germania e nel mondo anglosassone, e non appannaggio delle testate di opposizione.

Cooperazione e critica: in questo binomio contraddittorio si condensa la relazione tradizionale tra stampa e potere in democrazia. Il che vale a preservare una qualche funzione terza dell’informazione anche in tempi di pensiero unico imperante. Accade lo stesso oggi in Italia? Si può dire che anche nel nostro paese le maggiori testate della carta stampata e del giornalismo televisivo pubblico e privato mantengono un equilibrio tra prossimità e alterità al potere che permetta loro di assolvere almeno in parte il compito di informare senza troppo deformare?

Decisamente no. Da tempo – almeno dall’inizio dell’infausta stagione delle larghe intese, più probabilmente da quando la crisi economica imperversa – la stampa italiana (fatte le debite eccezioni) ha cambiato registro. Se ancora all’epoca della rissa bipolare tra centrosinistra e destra era possibile imbattersi in qualche analisi spregiudicata e cogliere frammenti di verità tra le righe di commenti o resoconti (purché, beninteso, non si trattasse della santa alleanza con gli Stati uniti e delle guerre scatenate nel nome della democrazia e dei diritti umani), oggi regna invece un’asfissiante concordia. Intorno ai feticci della governance neoliberale – le “riforme” in primis, evocate ossessivamente come una panacea per tutti i mali. Intorno alle figure che la incarnano – dal capo dello Stato al presidente del Consiglio in carica, passando per il presidente della Bce. Intorno alle politiche per mezzo delle quali viene compiendosi la metamorfosi americanista della società, il suo rapido regredire verso assetti postdemocratici, autoritari e oligarchici.

Documentarlo sarebbe sin troppo agevole. Basti un banale esperimento. L’attuale premier si è accreditato come l’uomo del cambiamento e, appunto, delle riforme. È un ruolo che sta a pennello a un yuppie della politica, venuto su col logo del rottamatore. Ma questa è una scelta d’immagine, è la sua autorappresentazione. Non dovrebbe costituire il contenuto dell’informazione, la quale avrebbe invece il dovere di entrare nel merito delle sedicenti riforme, parola magica che da vent’anni designa i misfatti dei governi nel nome del risanamento. Bene, provate a vedere che succede in proposito, se mai un giornalista, intervistando Renzi o commentandone le debordanti dichiarazioni in schietto stile nientalista, si prende la briga di discutere il criterio in base al quale un provvedimento può definirsi “riforma” e si distingue da un altro che non ne è degno.

Riforme erano dette anche quelle del fascismo, che di cose ne cambiò effettivamente molte e in profondità. Non sarebbe allora il caso di costringere chi governa a uscire dalla propaganda e a dichiarare i propri reali intendimenti? Non sarebbe un gesto di rispetto verso lettori e telespettatori incalzarlo, fargli presenti i costi sociali delle sue decisioni oltre che i loro vantati benefici? Non sarebbe questa un’elementare clausola di dignità per chi, facendo il giornalista, non dovrebbe accettare di degradarsi a velinaro, a supino amplificatore della voce del padrone di turno?

Ma, parole magiche a parte, il discorso ha una portata ben più vasta. E i possibili esempi si sprecano.

È mai possibile che nessuno trovi da ridire quando un membro del governo o del Pd recita la giaculatoria del «40 per cento degli italiani che ci chiedono le riforme»? È decente fingere di non ricordare che in maggio si votò per le europee con la fondata paura della marea fascista, e che a nessun elettore italiano venne in mente allora di concedere al governo cambiali in bianco per sfasciare la Costituzione, fare nuovamente cassa con le pensioni o stravolgere lo stato giuridico del pubblico impiego?

Un caso paradigmatico è l’evasione fiscale. Giornali e telegiornali ne parlano, inevitabilmente, quando la Corte dei conti o l’Agenzia delle entrate dirama le solite scandalose cifre che non hanno eguali al mondo. Per la cronaca siamo poco sotto i 190 miliardi di euro sottratti ogni anno alle finanze pubbliche. Visto che i numeri hanno una loro oggettività, il dato dovrebbe dominare la pagina economica. All’opinione pubblica – ammesso che in Italia ne esista ancora una – sarebbe doveroso spiegare quali nessi sussistono tra questo gigantesco ammanco e la drammatica fame di risorse nei bilanci delle pubbliche amministrazioni e delle famiglie dei lavoratori dipendenti. Si dovrebbe chiarire come non sia casuale che, vantando questo record, l’Italia sia anche in cima alle classifiche del debito pubblico, della disoccupazione e della pressione fiscale sul lavoro. Niente di niente, invece. Il tema è tabù. I cittadini debbono restare inerti sotto il bombardamento della narrazione ufficiale della crisi.
E così via esemplificando. Nel Mediterraneo si consuma ogni giorno la strage dei migranti.

C’è mai qualcuno che, commentando gli spropositi di un ministro o del leghista di turno, rammenti che i migranti non chiedono benevolenza: esercitano un diritto inviolabile? Che a quanti di loro fuggono da guerre e persecuzioni nessuno può legittimamente rifiutare asilo? E che gli Stati che non li accolgono violano norme fondamentali del diritto internazionale? Quanto al terrorismo, largo alle strumentalizzazioni di chi blocca sul nascere ogni discussione al riguardo. Non sia mai che ci si interroghi sulle responsabilità occidentali nella catastrofe mediorientale. E che, di terrorista in terrorista, a qualcuno venga in mente di chiedere conto anche a Netanyahu. Francamente dispiace che la recente polemica tra Grillo e il Tg1 sia stata liquidata anche a sinistra come l’ennesima aggressione di un energumeno. I modi offendono, ma la sostanza resta e meriterebbe ben altra considerazione.

Sotto la cappa del potere finanziario transnazionale, amministrato dalla tecno-burocrazia europea e dai suoi proconsoli nostrani, il giornalismo italiano ha perlopiù mutato pelle, acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce zelante. Che divulga e accredita le verità dispensate dall’alto, e con ciò impedisce la formazione di un’opinione pubblica documentata e critica. E non si creda che il riferimento al quadro dei poteri dominanti attesti un nesso cogente. Non vi è alcuna necessità in tale connessione, né vi opera una forza incoercibile. Sono in gioco, al contrario, la libera scelta di ciascuno e la sua responsabilità intellettuale e morale. La patologia di un giornalismo asservito è parte integrante della più grave questione all’ordine del giorno, quella del proliferare delle caste e della corruzione in esse dilagante.