«Salah si è potuto mimetizzare per quattro mesi in questa città, questa rete di connivenza doveva fare supporre che ad essere attiva non fosse solo una piccola cellula. C’è stata sicuramente una sottostima del fenomeno». Sugli attentati di ieri a Bruxelles abbiamo chiesto un’opinione ad Arturo Varvelli responsabile dell’Osservatorio terrorismo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Tra gli argomenti, subito dopo i fatti, quando ancora si cercano di capire le dinamiche, quante persone sono state impiegate negli attacchi e in che modo eventualmente l’intelligence avrebbe potuto adoperarsi, spicca senza dubbio la forza delle cellule islamiste pronte a colpire anche in un momento così «caldo» come poteva essere quello successivo all’arresto di Salah Abdeslam.

Lei si trova in questo momento a Bruxelles, può dirci che aria si respira nella capitale belga?
L’aria è quella che ci si può immaginare, stamattina la città era semideserta, c’era poca gente in giro, le sirene cadenzano il tempo, le facce delle persone appaiono spaesate, abbiamo visto persone in lacrime fuori dalla metropolitana dove c’è stato uno degli attacchi, persone che ci invitavano a tornare indietro.

Parliamo degli attentati, innanzitutto: dopo Parigi si era detto che la polizia francese fosse a conoscenza di piani, ma evidentemente non riuscirono ad agire in tempo. Come è stato possibile che l’intelligence belga impegnata in modo massiccio, specie dopo l’arresto di Salah, non abbia potuto prevenire questo genere di attacco?
Naturalmente quanto accaduto a Bruxelles ci racconta che la rete di possibili attentatori simpatizzanti o semplici supporter è molto estesa e questo l’avevamo già capito e intuito dal fatto che una persona come Salah potesse mimetizzarsi in città per quattro mesi. Non parliamo dunque di una piccola cellula, ma qualcosa di più e del resto si tratta di una considerazione che deriva dall’alto numero di foreign fighters partiti dal Belgio, sintomo anche di un sistema di integrazione parzialmente fallito benché larga parte della comunità sia integrata.

E chi non è integrato?
Parte di questa comunità vive in un sistema di omertà che può derivare da una simpatia o talvolta dalla paura per ritorsioni che possono arrivare dopo denunce. Si tratta di questioni che devono essere assolutamente tenute presenti. Poi c’è da aggiungere che il sistema di sicurezza del Belgio come era già capitato con la Francia si è fatto nuovamente colpire e si può tornare a discutere sul carattere preventivo della sicurezza, sulla necessità, in teoria, di un maggior coordinamento tra le intelligence e bisognerebbe riflettere su cosa è lo stato islamico e cosa rappresenta per la popolazione sunnita nel mondo musulmano.

Qualcosa che ha a che vedere con la propaganda dell’Isis e con le risposte occidentali?
Il quadro è chiaro: i sunniti si sono sentiti esclusi, e con questo naturalmente non si giustifica alcun atto terroristico, ma chiediamoci, su cosa fa leva lo Stato islamico? La base dell’Isis è la volontà di creare fazioni e divisioni e dare un senso di riscatto alla popolazione sunnita, il Califfato viene descritto come terribile dai media occidentali, ma per chi parte è una sorta di terra promessa e di Eldorado nel quale si può vivere. Il Califfato non offre sfumature non ci sono i grigi. Il sistema terroristico che si è venuto a creare è anche e soprattutto comunicazione politica, propaganda, con la quale si annullano le sfumature, tutto diventa bianco e nero. Il problema è che in questo tranello siamo caduti pure noi, perché ci vogliono fare sentire in guerra, ma si tratta di una falsa descrizione.

Una descrizione cui però si è risposto quasi sempre con le armi.
Bisogna essere civili, sempre. Questo significa che quando si prende in considerazione anche una risposta armata bisogna conoscerne e valutare con molta attenzione le conseguenze e abbiamo visto che negli ultimi periodi questi interventi armati si sono ritorti contro di noi e non solo. Il fallimento degli stati nel medio oriente possiamo considerarlo in parte insito all’interno del percorso del mondo islamico, ma è dovuto anche a interventi armati mal riusciti. Iraq, Libia e Siria sono lì a dimostrarlo. Dove sono falliti gli stati si sono inserite formazioni radicali islamiste che hanno, per così dire, «scalato» quegli stati. Quando interveniamo l’obiettivo strategico deve essere quello di creare stati inclusivi che si reggano sulle proprie gambe, società pluraliste. Il che non significa esportare la democrazia con le baionette come è stato fatto ma neppure aiutare il consolidamento di stati autoritari. Le capacità della nostra società a creare situazioni inclusive non vale solo per il Medio oriente, ma anche per l’Europa

Tornando all’attentato, la sicurezza in Belgio ha mostrato la difficoltà a prevedere certi attacchi…
È sconcertante questa falla, ma se guardiamo i numeri dei cittadini belgi coinvolti, perché sono cittadini belgi, è veramente difficile capire come arginare al meglio questo fenomeno. L’entità è stata sicuramente sottovaluta e le forze di sicurezza del Belgio non erano preparate anche perché il fenomeno da un punto di vista numerico è esploso nell’arco di un anno e mezzo e gli stati sono lenti a reagire a questi fenomeni. Quindi si sono fatti errori di valutazione e ci sono molte difficoltà legate a questioni sociali e di coordinamento interforze. I servizi di sicurezza, giustamente, sono gelosi delle proprie informazioni, ma si deve fare uno sforzo di integrazione, per forza di cose.

Proprio nel momento in cui l’Ue sembra sfaldarsi…
Rischiamo di andare incontro – senza voler accusare nessuno – a fenomeni che già conosciamo. La storia ci insegna che dovendo rispondere ai cittadini- elettori spesso anche la politica agisce di pancia e quindi la risposta può essere molto violenta e banale, come fece Bush – del resto – dopo l’11 settembre reagendo in modo controproducente, andando fuori misura.