Un elettore del Psoe su quattro è andaluso. Questo è il dato da cui partire per capire i travagli del partito socialista spagnolo dopo il voto di domenica. Il segretario Pedro Sánchez nulla può senza il consenso di Susana Díaz, leader del partito nella vasta regione meridionale, della quale è la potente governatrice. E l’ambiziosa Díaz tutto vuole tranne che i socialisti si imbarchino nel difficilissimo tentativo di formare un esecutivo «neo-zapaterista» con l’appoggio di Podemos e dei nazionalisti catalani. A scanso d’equivoci, ieri lo ha ribadito chiaro e tondo: «I cittadini ci hanno voluto all’opposizione». Un risultato sul quale «occorre aprire una riflessione» nel partito, che ha «tenuto» soltanto nella Comunidad da lei amministrata (31,5%, nove punti sopra la media nazionale): Sánchez è avvisato.

E allora devono governare i conservatori? Questo Díaz non lo dice. Sa che la base socialista vede quest’ipotesi come fumo negli occhi, e non commette l’imprudenza di affermare che secondo lei il Psoe dovrebbe astenersi nel voto di investitura a Mariano Rajoy consentendone la rielezione: la linea che pubblicamente difende è quella ufficiale, e cioè il «no» al premier uscente. Nessun dirigente del Psoe – a parte la vecchia guardia – può permettersi in questa fase di affermare qualcosa di diverso.

Per sciogliere l’ingarbugliata matassa uscita dalle urne le mani della leader andalusa saranno probabilmente quelle determinanti. E non è affatto da escludere che Díaz si stia già preparando a capeggiare le liste socialiste in eventuali nuove elezioni. È uno scenario possibile, forse probabile: se le forze politiche manterranno le posizioni attuali, è l’esito obbligato. Il ritorno alle urne potrebbero volerlo in molti, forse tutti tranne Ciudadanos. Il Pp potrebbe sacrificare Rajoy e presentarsi con l’attuale vicepremier Soraya Sáenz de Santamaría, figura decisamente più fresca, e analogamente farebbe il Psoe sostituendo Sánchez con la carismatica Díaz. E Podemos potrebbe incorporare Izquierda unida, il cui giovane leader Alberto Garzón è da sempre favorevole a liste unitarie sul modello di quelle vincenti di Catalogna e Galizia. Gli unici a perderci rischierebbero di essere i liberali «anti-casta» di Albert Rivera: il loro 13,9% li ha situati un gradino sotto i tre «grandi» Pp, Psoe e Podemos, e molti elettori – con un profilo ideologico misto – potrebbero abbandonarli e preferire una delle tre forze con chances reali di diventare primo partito.

L’abile Rivera lo sa, e infatti è quello che più insiste perché «la legislatura cominci e si formi un governo». Ha già annunciato che il suo gruppo favorirà l’investitura di Rajoy e chiede al Psoe di fare lo stesso. A spingere in questa direzione è l’influente quotidiano El País, voce dell’establishment di centrosinistra: «Il nuovo pluralismo politico crea una magnifica opportunità per avvicinarsi alle democrazie del resto d’Europa con la formazione di un governo di grande coalizione fra conservatori, socialisti e liberali», si leggeva ieri in un commento a firma del politologo Josep Colomer. E questo, c’è da prevederlo, sarà il leitmotiv delle prossime settimane: «In Europa si fa così». Contro il «rischio caos» verranno agitati, all’occorrenza, anche i fantasmi dell’instabilità della Seconda Repubblica che precedette la guerra civile, evocando quale antidoto il mito del «consenso» della Transizione post-franchista.

Su cosa potrebbe basarsi una fase di «larghe intese», però, nessuno lo sa. Non l’economia, perché il Psoe si suiciderebbe se accettasse qualunque misura di austerità: il tributo alla «salvezza dei conti pubblici» lo pagò già José Luis Zapatero. Non l’assetto territoriale, perché il Pp non vuole cambiare nulla, mentre i socialisti propongono il federalismo. Non la legge elettorale, che ai conservatori va benissimo com’è, mentre socialisti e centristi vorrebbero renderla maggiormente proporzionale (altro che Italicum). Le condizioni per una legislatura «costituente» non ci sono, e i governi «tecnici» non sono nelle corde della democrazia spagnola. Lo erano invece in quelle della dittatura: Franco disprezzava «la politica» e dalla fine degli anni ’50 affidò a un gruppo di tecnocrati (legati all’Opus Dei) il governo del Paese, anche per agevolare l’afflusso di prestiti internazionali.

E proprio la spinta delle cancellerie europee e le turbolenze dei «mercati» potrebbero essere i fattori-chiave di un eventuale «governo d’emergenza» fondato su larghe intese. La Banca di Spagna, attraverso il suo bollettino ufficiale diffuso ieri, mette in guardia dal rischio che il nuovo scenario politico blocchi «l’agenda riformatrice» da cui «dipendono le aspettative di crescita». Votare si può, ma cambiare strada non si deve: gli spagnoli sono avvertiti.