Cinque poliziotti morti e sette feriti: è il bilancio dell’agguato che ha seminato il panico a Dallas nella notte di ieri, trasformando il centro della città texana in una campo di guerriglia urbana. L’attentato è avvenuto la sera di giovedì durante una manifestazione di protesta contro le uccisioni d Alton Sterling e Philando Castile, i due afroamericani giustiziati da agenti di polizia in Louisiana e Minnesota nelle precedenti 48 ore.

Quella di Dallas era una delle decine di proteste organizzate in molte città del paese, Seattle, Denver, St. Paul, Chicago e New York fra le altre. Il corteo texano si è svolto pacificamente con la partecipazione di un migliaio di persone. Quando il corteo volgeva al termine, nei pressi di Dealey Plaza, d’improvviso sono risuonati spari. Dai video caricati in rete si contano una cinquantina, forse sessanta colpi di arma semiautomatica in rapida successione. La sparatoria ha provocato il panico fra la folla che si è dispersa in ogni direzione mentre il centro veniva invaso da volanti e agenti in assetto di guerra.

La polizia ha parlato di cecchini appostati su tetti o postazioni elevate. In un video trasmesso dalla Fox si vede però anche un uomo armato che sorprende alle spalle e apparentemente uccide un poliziotto a bruciapelo. La guerriglia è proseguita per tutta la notte. Nella notte sono stati effettuati alcuni arresti: due individui visti gettare borse in un auto di grossa cilindrata e allontanarsi precipitosamente, fermata dopo in inseguimento. Un’altra persona, una donna, è stata arrestata separatamente anche se non è ancora chiaro il loro possibile ruolo nella dinamica dell’attacco. Di certo per ora il ruolo di un individuo, forse autore unico della strage: Micah Xavier Johnson, ex militare afroamericano di 25 anni residente a Mesquite, un sobborgo della città.

È lui che si è asserragliato in un parcheggio tenendo testa per diverse ore all’assedio della polizia con cui a più riprese a scambiato fuoco mentre era in corso anche un negoziato per via telefonica. Ai negoziatori Johnson avrebbe detto che «la fine è vicina» che avrebbe «ucciso bianchi e poliziotti bianchi» per vendicare le uccisioni di neri da parte dell polizia. Prima dell’alba le forze speciali del Dallas hanno usato un robot anti esplosivi per trasportare un ordigno vicino a Johnson e farlo esplodere uccidendolo.

Alla la notte di sangue è seguito un day after altrettanto confuso. Dallas non è stata una spontanea esplosione di rabbia al termine di una manifestazione come molti si sono inizialmente precipitati a dire, ma di un operazione ben pianificata da un individuo. Rimane il dato di una settimana di sangue che ha condensato nelle uccisioni di Sterling e Castile e nella strage di Dallas tutta la forza bruta dello «scompenso razziale» di cui ha parlato Obama, costretto dal summit di Varsavia ad occuparsi di una guerra civile tutta americana. Perché se è chiaro che le azioni di Dallas sono state quelle di un individuo forse squilibrato, esistono in un contesto storico e politico inequivocabile. Rimane il dato del «law enforcement» dell’ordine imposto sui cittadini – e di più sui cittadini di colore – da una polizia armata nei fatti e nella mente.

Certo non poteva esserci località più simbolica che Dealey Plaza a Dallas, a poche centinaia di metri dall’assassinio di John F. Kennedy, il fatto che aveva dato alla città il nomignolo di City of Hate, per fotografare un America in preda alla violenza armata. Il cuore «mitologico» del meridiano di sangue in cui si dibatte il paese.

La solidarietà compatta e i discorsi di circostanza del giorno dopo sono destinati a degenerare in un intensificazione dello scontro fra America bianca e nera, una ulteriore esplicitazione di un conflitto razziale mai cessato neanche nei mandati del presidente nero. Ieri il ministro di giustizia, Loretta Lynch, anche lei nera (come lo è David Brown il capo della polizia di Dallas), ha detto: «la risposta a questa settimana di insondabile tragedia non deve essere ulteriore violenza». Più lucida l’analisi di Shray Santora, madre nera di tre bambini ed ex marine che aveva marciato nel corteo di Dallas. «L’agguato è stato scioccante ma la gente è in preda alla rabbia e all’impotenza atavica; non sa come reagire. Black Lives Matter tenta di recuperare pacificamente lo spazio pubblico che ci è stato sottratto Ma ci sono persone che sono piene di rabbia che non sanno che esprimere in modo aberrante».

La amara verità è che, come scrive Ta Nehishi Coats nel suo Tra Me e il Mondo, il corpo di un nero è sempre in pericolo e che «la polizia esprime l’America in tutta la sua volontà e paura». È una coscienza atavica contenuta nel discorso che ogni genitore nero deve fare ai propri figli per spiegare loro che il colore della pelle li rende cittadini di un mondo a parte dove non si applicano le regole dei bianchi. Il discorso che anche Obama ha ammesso di aver fatto alle figlie dopo l’assassinio (impunito) di Trayvon Martin.

La solidarietà di circostanza si sta dunque già stemperando in una retorica di scontro, a partire dalle piccole cose, la trasformazione del nome di Micah Xavier Johnson in Micah «X» Johnson su molta stampa per assicurarsi di associarlo proditoriamente a Malcolm e alla Nation of Islam. I titoli già apparsi sui siti conservatori di «Blue Lives Matter» per valutare le vite dei poliziotti contro quelle delle vittime nere in un macabro listino di valori. O le accuse lanciate ad Obama come quella dell’ex parlamentare Joe Walsh: «Attenti Obama Black e Lives Matter, la vera America è sulle vostre tracce».

A pochi giorni dalla convention repubblicana si preannuncia un estate rovente, visto che a Cleveland verrà acclamato un leader le cui esternazioni razziste hanno quasi raddoppiato il traffic internet verso siti suprematisti.