Nata a Torino nel 1922, Maria Luisa Spaziani è l’unica donna italiana ad aver percorso quasi tutto il Novecento da «poetessa» senza però essere affetta da malattia alcuna, mostrando anzi una ironica vitalità. Un saper fare e un saper affabulare che hanno sostenuto, insieme al suo gran corpo dagli azzurri occhi a mandorla, i danni e le gioie che toccano a un’esistenza che ha avuto in sorte di attraversare un conflitto mondiale e un intreccio individuale con due uomini niente affatto comodi come Eugenio Montale ed Elémire Zolla (che sposerà e dal quale si separerà). Non a caso una delle opere con le quali Spaziani più identificava se stessa era proprio la sua Giovanna D’Arco – il «corpo formidabile» della ragazza santa che s’inabissa nel fuoco.
Ma Spaziani, oltre a scrivere, parlava da poetessa. Sta a noi testimoniare. «I figli dell’amore hanno un enzima in più»: questa la frase con la quale mutò, al primo ascolto, un destino formalmente tragico in un dono. L’aspirante scrittrice aveva appena sfoderato la furibonda e maleducata storia d’amore dei suoi genitori, sfociata – è il caso di dirlo – in un doppio suicidio per acqua. Per intuito, istinto e intelligenza etimologica, Spaziani aveva messo in pratica la reazione chimica di un poeta sopra una carne umana: trasformare anche l’orfanità in benedizione.
Lei, che in poesia sapeva ironizzare anche su un assassino seriale come Il mostro di Firenze, aveva il dono dell’oralità pensante. Il suo discorso spandeva un bene evocativo, mitologico, sui poeti che aveva conosciuto – a meno che non si trattasse dei cattivi ragazzi del Gruppo ’63, che accusava di aver fatto impallidire, con la loro illeggibilità, il già esangue manipolo di lettori di poesia. Ma: Caproni, Sartre, Pound, Borges, Picasso, sedevano invisibili accanto a lei, fatti materia elettrica dalle sue parole, dai suoi aneddoti, dai suoi dettagli sovraesposti, immaginari per quanto erano veri. La sua era una dizione iperrealista. Quei poeti tornavano forma e consistenza, ovunque lei li pronunciasse: nel suo salotto, nelle aule universitarie (insegnava lingua e letteratura francese all’Università di Messina) o nelle belle stanze del Centro Montale, da lei fondato nel 1978 e presieduto finché la natura mutevole dei legami e degli accordi umani gliel’ha permesso.
Maria Luisa Spaziani era di diritto il «carnivoro biondo» de La bufera montaliana, libro squassato dall’irruzione ferina e dai crolli della guerra, con quei tuoni di polvere da sparo e quell’andarsene disincantati, senza però aver smesso di sognare; libro della resa dolente all’irrazionale storico, dove Montale afferma di aver visto «le ali» sulle «scapole gracili» di Maria Luisa, di aver graffiato a sangue lo stimma della «salvezza» e della «perdizione» sulla fronte di lei. E ora, io che sono in ginocchio e perdonato solo dal giorno che tu sei nata – si domanda il poeta che ha nome d’albero – «dove seppellirò l’oro che porto». Ora che te ne vai. Come Giovanna, «nel rubino squillante del tramonto».