Alberi bardati di neve e mani che si stringono in penombra, una goccia abbarbicata alla pietra un istante prima di cadere. Una voce di donna incede tra il suo dire e le immagini, come “sussurri e grida”, divenuti parole risonanti. Sinestesie, memorie, onomatopee, allitterazioni di dentro. Gli occhi e l’olfatto tra steli e fiori cullati dal vento, croci ormai storte in un cimitero di campagna, e ghirigori di uccelli, e paesaggi che si eclissano, muoiono riaffiorano, ora nel bianco ora nel rosso, e un cavallo che si rotola nell’erba, e un orso e un serpente … Un terreno assiderato si sgretola, spighe splendenti rinascono nel sole, l’onda sonora galoppante di un treno si fonde coi concerti sommessi e plurisensoriali del bosco di una vita.
“Dialogo della Natura, del Cinema e di una filmmaker che è anche poeta”, questo, col pensiero a colui che voleva con tutte le sue forze lacerare il velo vischioso di Recanati, potrebbe essere il sottotitolo di Iza lika zrcala (A two way mirror) della regista croata Katarina Zrinca Matijević, in questi giorni al Trieste Film Festival – il finale è domani – un’opera che con la sua bellezza inoppugnabile onora la cinematografia del centro Europa (a cuore alla rassegna curata da Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo), ma non solo quella.
Ma se per Leopardi del Dialogo si trattava di un confronto frustrante con un Natura tanto algida quanto indifferente (fino a immaginare una sorta di “non luoghi” di Islanda), qui invece, l’autrice, nata a Zagabria, dove ha studiato e vive, guarda se stessa e la sua storia – sua ovviamente la voce over – attraverso le forme a lei care del piccolo villaggio di Lika, alveo di antenati e di infanzia, certa di potersi affidare a una interlocuzione compartecipe, a un rispecchiamento empatico e reciproco. (Vedi titolo inglese del film).
Perché è solo in questa “sorellanza” effusiva con la natura (qualcosa che rimanda più a Leopardi de L’infinito, a Emily Dickinson, o a certe note di Maria Luisa Spaziani), che Katarina – incontrata a dicembre in presenza grazie al Festival dei Popoli – scorge, da adulta, il sovrumano coraggio di ripetere il gioco tanto amato da piccola, quando gettava sassolini nel vuoto degli anfratti, come a mettersi in ascolto dell’abisso.
Così sgorga il dolore delle ave che la impregna: figli come steli in una mano, sempre meno con le generazioni; per non dire degli aborti, vuoto palpabile dei figli mai nati, la presenza di un nonno scomparso e farfalle sulle dita, quella dell’altro, che riaffiora in un calamaio ricomposto tra le rovine dell’ultima guerra. E conoscere l’eclisse dell’epilessia, tempesta di percezioni deviate, e farsi inverno e rifiutare i farmaci, per poi fiorire con l’unica figlia nata, e morire di nuovo come ape congelata nel proprio miele, causa recidiva della malattia, dopo 14 anni … Eppure non smettere di narrarsi, in un’opera da vedere ancora e ancora, assaporandone singolarmente e insieme i diversi flussi. Come attraverso tela di ragno sull’infinito.