La settimana appena passata, dal 18 al 25 ottobre, ha segnato un passaggio determinante per la delineazione del nuovo quadro politico e sociale maturato nel nostro paese. Ciò che è più importante è che questo non è accaduto nei palazzi istituzionali, ma nelle piazze o in convegni pubblici. Milano, 18 ottobre: la manifestazione «Stop immigrazione» organizzata dalla Lega Nord con significative adesioni extralombarde delle più vivaci organizzazioni neofasciste. Firenze, 24-26: la Leopolda 5, tre giorni di convention organizzata da Matteo Renzi e profumatamente finanziata dal peggio del capitalismo nostrano e non solo. Roma 25 ottobre: piazza San Giovanni, la più grande manifestazione di popolo da almeno dieci anni a questa parte (bisogna risalire a quella contro la guerra del 15 febbraio del 2003 per avere un paragone quantitativo all’altezza) finanziata dai lavoratori stessi tramite le iscrizioni al sindacato, preceduta dallo sciopero dei sindacati di base del giorno prima. Mentre la meno recente performance grillina del Circo Massimo – non propriamente un successone – sembra già scolorire nei ricordi.

Ognuno di questi tre appuntamenti ha avuto un segno e un significato preciso difficilmente equivocabili, con i quali bisogna fare i conti.

Milano: la piazza del rancore (per rubare un titolo azzeccato di un libro di Aldo Bonomi). Un rancore diffuso, non più sordo, ma esplicito che si sfoga contro il facile capo espiatorio dell’immigrato secondo un rito che risale – direbbe Renè Girard – agli albori dell’umanità e che sempre si ripete e si rinnova. Che prende di mira il potere costituito non solo in Italia, ma in Europa, con la stessa confusione mentale e falsa coscienza di sé della rivolta contro le plutocrazie ebraico-massoniche di un secolo fa. Alcune decine di migliaia sul sagrato di piazza Duomo – non saranno stati centounomila come ha detto Salvini – sono comunque una dimostrazione di forza da non sottovalutare.

Ho letto che il paragone con il fascismo è errato, che neppure il lepenismo, cui Salvini esplicitamente si ispira, potrebbe essere definito tale. Certamente Marine le Pen è più accorta e «moderna» del padre. Ovviamente nessun fenomeno politico sociale si ripete esattamente; neppure la metafora marxiana della reiterazione in farsa è una legge scientifica. Ma qui siamo di fronte a un fatto nuovo: la delineazione di un popolo di destra, non semplicemente l’accozzaglia di residui del passato, che sceglie la sponda della reazione pura per condurre la sua battaglia alla globalizzazione e alla crisi. È diverso dal fascismo nascente della fine degli anni dieci del secolo scorso? Certo, infatti è peggio. Basta confrontare i proclami sansepolcristi di allora con le parole d’ordine udite nel corso della manifestazione e dal palco milanesi.

Firenze: la convention della supponenza. Dicono 19mila passaggi in tre giorni. Non è una cifra da impressionare nessuno, in sé e per sé. Si sono incontrate le nuove élites del paese con un largo contorno di aspiranti tali e di immancabili adoratori. Renzi ha addirittura presentato l’incontro come la contromanifestazione rispetto a Roma. Incauto? No, provocatorio, ma sincero. In effetti la Leopolda è stata la controparte della manifestazione romana. Si sono udite cose che ancora dal sen non eran sfuggite. Non solo l’articolo 18 sarebbe morto e sepolto, ma perfino il diritto di sciopero pur nelle sue forme già imbrigliate. I Serra, che nulla conoscono della vita e del lavoro, si sono eretti a nuovi interpreti del mondo. Ex sindacalisti pentiti – almeno alcuni di questi con un po’ di vergogna – ed ex rappresentanti della «sinistra radicale», sono passati sorridenti sotto le forche caudine dei nuovi vincitori. Le tardive dichiarazioni di rispetto di Renzi verso la manifestazione romana, sono solo il prodromo per dichiararne l’ininfluenza verso un quadro e un sistema politico da tempo e oggi ancor più impermeabilizzato alla pressione popolare. Per Renzi non conta nulla che la stragrande maggioranza di quelli che sfilavano in piazza fossero elettori e persino militanti del suo partito, poiché questo non esiste più e la Leopolda ha bollinato la sua sparizione. Il tent party (il partito tenda), come ha detto Nadia Urbinati, o come preferirei il catch all party (partito pigliatutto) – ma non il «partito della nazione» dato che siamo di fronte ad una articolazione della governance europea – è un non partito: tende ad assorbire la totalità non a rappresentare una parte in un indistinto che favorisce, anzi si basa, sul leaderismo e la non partecipazione, sulle cordate e sulle nicchie di piccoli poteri funzionali alla tenuta del quadro, su un sistema autoreferenziale insensibile ai movimenti sociali portatori di proposte. Il populismo dall’alto non ammette repliche dal basso.

Roma: la piazza della lotta e della speranza. Un milione e forse più contro la politica di questo governo. Di tutte le generazioni, con una fortissima presenza giovanile. La plastica confutazione della propaganda renziana secondo cui chi difende l’articolo 18 spegne il futuro dei giovani e del solito gioco di contrapposizione vecchi-giovani, inside-outside nel mercato del lavoro, cioè della retorica dominante anche prima dell’avvento dell’era berlusconiana e che ha portato alla demolizione del diritto del e al lavoro. Per piazza San Giovanni il nuovo re è nudo. Il popolo della sinistra si è ritrovato. Ed è alla ricerca di una sinistra di popolo che ancora non c’è, né si intravede, malgrado alcuni generosi tentativi in corso (come quello de L’Altra Europa per Tsipras). La meravigliosa giornata di Roma non è quindi una vittoria né stabile né tantomeno definitiva. Molto dipenderà dalle dimensioni che assumerà l’annunciato sciopero generale. Proprio perché sono lustri che non se ne vede uno e nel frattempo è mutata la composizione del lavoro, la scommessa è grande. Servirà intelligenza e capacità innovativa nei contenuti e nelle forme per convincere in periodo di recessione a perdere una giornata di retribuzione.

Ma un nuovo cammino è cominciato. Se non altro i contorni delle forze in campo si sono venuti delineando, sul piano sociale e su quello politico. Una destra aggressiva e pericolosa, perché dotata di radicamento popolare; una elite di governo neototalitaria, che nega la democrazia dalle sue più profonde fondamenta; un popolo di sinistra che non ama le divisioni ma soprattutto le false narrazioni. Il panorama è più chiaro. Ognuno può e deve scegliere.