Un vertiginoso e psichedelico film-cervello, l’ultima creazione cinematica di Gaspar Noé. Un americano a Parigi. Sogna di fare un film pieno di «sperma, sangue e lacrime». La materia della vita. Com’è che nessuno l’ha fatto? Com’è che nessuno ci prova? Lui, Murphy (un solido Karl Glusman, con una bella faccia da pitbull), incontra e s’innamora perdutamente di Electra (Aomi Muyock, un corpo e un volto da segnarsi a caratteri cubitali). Insieme incrociano Omi (Klara Kristin) incarnazione perfetta di un loro sogno erotico. E se due sono pochi, tre sono una folla.

La sceneggiatura di Love potrebbe stare in un fazzoletto. Non le ambizioni di Noé. Con un atto di folle coraggio e altrettanto determinata arroganza, il regista, gettando sul piatto viscere e anima, si mette in scena oltre le soglie del ridicolo, corteggiando spudoratamente il sublime. L’indicibile. Si entra così nel maelstrom di Noé, regista che concepisce ogni suo film come un bungee jumping contro convenzioni e buon gusto. Col rischio di spaccarsi la faccia, rimetterci tutte le ossa. Come una propaggine dell’immersione audiovisiva di Enter the Void, Love è dichiaratamente autobiografico (a tratti persino imbarazzante), tentando di tirare le fila di un discorso cinematografico non lineare, in bilico fra calcolo e rischio, sincerità ed esibizionismo. Come se quest’ultimo non fosse niente altro che il canto di una maschera che celando il suo cuore nell’effetto, braccasse invece tutti gli affetti di una pratica cinematografica aperta, dichiaratamente sensuale. Insurrezionale. Tanto programmatico quanto fragile, Love si regge su una nudità diversa da quella dei numerosi dettagli hardcore. Il contrasto che si gioca fra interpreti, colti quasi in uno stato di aurorale e virginale confusione emozionale (ai limiti di un dilettantismo voluto), stride con l’apparato visivo di Noé, paradossalmente massimalista nel suo minimalismo insistito. Come proseguendo il lungo volo nel Love Hotel di Enter the Void, il cui modellino in scala si ritrova nella stanza di Murphy, ma riattivando il nastro all’indietro di Irreversible, Noé crea un spazio interiore ballardiano dove D.W. Griffith si specchia nelle note di Nico Fidenco composte per Emmanuelle in America, dove Pasolini s’intreccia con Carpenter e i Goblin, nel quale Fritz Lang e Andy Warhol coabitano nel medesimo sguardo incantato di Electra e Murphy.

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Noé con Love offre la sua versione del classico boy meets girl che il cinema della nouvelle vague ci ha fatto amare e che quest’anno a Cannes abbiamo ritrovato nel felice esordio di Louis Garrel. Murphy, a modo suo, è l’ultima variazione possibile del dreamer doineliano. Perso fra sesso e droghe, sempre a misurare lo scarto fra desideri e principio di realtà, scopre un mondo nel quale l’orgasmo non basta più per tenere a freno la morte. In un mondo in cui tutto si consuma, Murphy e Electra bruciano con devozione sacrificale il loro amore sull’altare dello spreco e della consunzione. Affinché nulla resti. Affinché tutto scompaia. Tranne lei. Tranne lui.

Film inteso come una purificazione (il viaggio con l’ayuhuasca), Noé chiama a raccolta i suoi angeli custodi e i suoi demoni. Si concede il lusso di affidare al suo produttore Vincent Maraval (nel ruolo di un saggio flic parisien) la migliore battuta del film («Mi piace guardare») e infilare in colonna sonora persino frammenti di musica composti da Bobby Beausoleil (chitarrista dei Love, membro del clan di Charles Manson). E sull’ultima immagine del film, una pietà laica dove l’amore cristallizzato nel momento del suo darsi alla vita già annuncia la sua morte, risulta davvero impossibile trattenere la commozione. Love, un corpo a cuore memorabile.