La morte, i momenti che la precedono, quelli che la seguono, e l’impatto che la scomparsa di una persona amata lascia su chi rimane «indietro» erano i soggetti di due film presentati in concorso quest’anno: Sea of Trees, di Gus Van Sant e Chronic, del regista messicano Michel Franco (premio per la miglior sceneggiatura). Passato molto più inosservato dalla stampa, nella sezione Un Certain Regard (dove ha vinto il premio per la regia), Journey to the Shore, di Kiyoshi Kurosawa, riflette sugli stessi temi in modo molto più alto, commovente e visionario.

Tratto da  Kishipe No Tabi, un romanzo del 2010 della scrittrice Kazumi Yumoto (nota soprattutto grazie ai suoi libri per ragazzi), il film apre su Mizuki (Eri Fukatzu), un’ insegnante di piano il cui marito Yusuke è scomparso da tre anni, senza lasciare traccia. Riappare improvvisamente una sera, con addosso un impermeabile arancione forte, mentre Mizuki, si sta preparando l’ennesima cena solitaria, e le confida di essere morto, il suo cadavere divorato dai granchi in fondo al mare di Toyama. In tutto il cinema colto e appassionato di Kurosawa, il soprannaturale coesiste con ingannevole naturalezza con la «realtà»; ma, ci spiega il regista nelle note di produzione di Journey to the Shore, Yusuke non è solo un (altro) fantasma – bensì uno spirito in viaggio verso quella che sarà la sua morte autentica. L’idea, intrinseca anche al romanzo, quella di raffigurare la veglia di una persona che sta morendo e che nella cultura giapponese è intesa come un vero e proprio processo di accompagnamento (mitoru), da una dimensione all’altra. Mizuki si unisce con gioia al viaggio di Yusuke che la porterà a conoscere –in uno spazio sospeso, popolato da viventi e non- luoghi le persone che suo marito ha conosciuto e frequentato, nei tre anni che ci ha messo a tornare da lei.

https://youtu.be/vLZ4XB3iuUk

E se ripercorrere questa strada è necessario a Yusuke per raggiungere, the shore (ovvero la riva «dell’aldilà»), il viaggio è per Mizuki, allo stesso tempo, un modo per prolungare la sua vita con suo marito (scoprendo cose che non conosceva e vedendolo sotto una luce diversa) che per assorbirne la perdita. «I tre anni in cui Yuzuki è stato via, saranno alla fine colmati dalla sua presenza. E Misuki potrà godere di un senso di pienezza che non ha mai conosciuto prima. Il passato che hanno condiviso, quello che non hanno condiviso e il loro futuro insieme saranno esaminati, valutati e compresi» scrive Kurosawa nelle note sul film.

Aiutato dal suo abituale direttore della fotografia, Akiko Ashizawa, il regista di Tokyo Sonata e Bright Future (entrambi in passato a Cannes) filma questo road movie trascendente con grande semplicità. Il look naturalista squarciato qua e là da bellissime intuizioni di regia – Yusuke che, grazie a un gioco di luce, inizialmente sembra galleggiare, nel suo impermeabile arancio; oppure il muro pieno di fiori della stanza di un vecchio, che poi appassiscono di colpo. Anche le musiche di Yoshide Otomo e Naoko Eto, che spesso evocano Wagner e Bernard Hermann tradiscono il melodramma che si nasconde dietro all’apparenza minimal di questo film, figlio di credo e letteratura buddisti e scintoisti (come avrebbe voluto essere Sea of Trees), ma anche di una densa tradizione di cinema occidentale che va da Il paradiso può attendere di Lubitsch, a Scala al paradiso di Michael Powell a Ghost.

La scoperta di un’infedeltà interrompe il viaggio per un attimo e dà al film una delle sue scene più belle e imprevedibili in cui Mizuki va a trovare la ragazza con cui Yusuke ha forse avuto una storia per dirle che è morto.