«Guardo il cielo dove si addensano nubi nere. La stagione delle piogge. Un cielo scuro e cupo, come il futuro del Messico, così simile, anche in questo, all’Irlanda». Messico e nuvole; sì, ma nuvole oscure, tragici presagi di sventura. Queste le parole, sebbene non le ultime, che «concludono» idealmente l’impegnato e coraggioso ultimo romanzo di Pino Cacucci, Quelli del San Patricio (Feltrinelli, pp. 216, euro 15). Convogliano in maniera efficace quello spirito indomito che portò, variamente, alla morte, alla forca o alla disperazione, i membri del valoroso Batallón San Patricio, nel 1847. Fu una «brigada internazionale della dignità», come la definisce l’autore che, nella guerra di invasione del Messico da parte degli Stati Uniti d’America – evento storico subdolamente ricordato, a nord del Rio Bravo, come la Mexican-American War – disertarono dai ranghi spietati dell’esercito invasore, per unirsi alle fila malandate di quello degli oppressi.

Un romanzo storico, dunque, ma incentrato su un passato che riecheggia in maniera sinistra il nostro presente. La guerra d’invasione, dichiarata nel maggio del 1846, fu nei fatti uno dei primi tentativi di «esportare la democrazia» presso genti che già la possedevano, e che anzi, in merito, avrebbero persino potuto dar loro più d’una lezione.

Un paragone con le brigate internazionali che accorsero in supporto dei repubblicani in Spagna durante la guerra civile spagnola (1936-9) – tra cui il contingente irlandese guidato da Frank Ryan – appare più che appropriato. Anche in quel caso, esattamente come in Messico, volontari da più paesi alzarono la testa contro un evidente sopruso, quello del colpo di stato franchista. Una ballata irlandese che narra le sorti della quinta brigata internazionale recita: «gli alleati di Franco erano i ricchi e i potenti, quelli di Frank Ryan stavano dall’altra parte», dando così ad intendere l’enorme disparità delle forze dispiegate in campo. Nonostante ciò, italiani, irlandesi, inglesi, francesi, belgi, tedeschi, bulgari, ungheresi e statunitensi, combatterono fianco a fianco, in Spagna, contro il dittatore, per riscattare la dignità di un popolo.

Qualcosa di molto affine occorse in Messico, dove sotto la bandiera dei disertori irlandesi – un vessillo verde con la scritta Erin Go Bragh («Irlanda per sempre», o più precisamente «Irlanda fino alla fine dei tempi») – un contingente guidato da irlandesi, ma che includeva francesi, italiani, polacchi, spagnoli, canadesi e anche ex schiavi africani, lottò strenuamente e non senza ottenere successi, contro i soprusi dell’esercito regolare statunitense; ma soprattutto contro le allucinanti efferatezze nei confronti delle popolazioni inermi, perpetrate da pattuglie di ranger texani: bande di tagliagole e mercenari che la storia mai assolverà.

Gli irlandesi provenivano in gran parte dalle fila dell’artiglieria statunitense, e diedero man forte, per la loro perizia operativa ed efficacia offensiva, allo sconquassato e mal guidato esercito messicano. Inflissero nelle varie battaglie non poche perdite all’esercito invasore, ma ovviamente non riuscirono, per carenza di mezzi e per l’imperizia e forse la malafede di molti generali messicani, a fermare l’aggressione. Un’aggressione che si concluse nel 1848 con l’annessione di quasi la metà del territorio nazionale: per la precisione dei territori di Texas, California, Arizona, New Mexico, Nevada, e Utah, oltre a parti consistenti del Colorado, del Wyoming, ma anche dell’odierno Kansas e dell’Oklahoma.

I superstiti del Battaglione San Patricio furono condannati ad essere impiccati perché disertori, in spregio alle regole dell’esercito americano, che per tale reato prevedevano la fucilazione. E invece, sotto al sole cocente, a San Ángel e sulla collina di Mixcoac, quelli del San Patricio vennero impiccati per vendetta. Tutti tranne uno, il loro comandante, John Riley, sfuggito al cappio perché aveva disertato prima della dichiarazione di guerra. A lui, o meglio al suo corpo stremato, furono comminate più di cinquanta frustate, e venne poi marchiato a fuoco sul viso, con la D di deserter.

Quelli del San Patricio è una storia di esuli, ma di esuli che trovarono una nuova patria, se non una nuova vita. Un esercito della diaspora, dunque, una fuga cui può porre fine soltanto l’orgoglio.
Per quanto riguarda gli irlandesi, in gran parte erano sfuggiti, nella seconda decade dell’ottocento, da una delle più violente carestie in patria; ed è emblematico che, proprio nell’arco di tempo della guerra d’invasione del Messico, si diede nella loro isola un’altra e ancor più violenta «Grande Carestia», non provocata, ma neanche arginata dagli inglesi: una carestia nota in Irlanda col nome raggelante di «La grande fame».
Il romanzo di Cacucci ricostruisce con meticolosità e passione le eroiche vicende di questo valoroso gruppi di volontari irlandesi, che fu in grado di attrarre, in una disperata battaglia di dignità, soldati da ogni provenienza, stufi della violenza cieca perpetrata dagli Statunitensi, e dalla falsa propaganda che muoveva quei nuovi, ma più scellerati, conquistadores.

Il merito del libro, tuttavia, va oltre la ricostruzione storica di eventi già raccontati sul grande schermo da un film di Lance Hool del 1999 (One Man’s Hero), e più di recente rievocati in un prezioso album congiunto dei Chieftains e Ry Cooder del 2010 (San Patricio). Cacucci racconta la storia del glorioso battaglione attraverso lo sguardo del comandante, in un’ottica retrospettiva che dona alla voce narrante una drammatica nota di fatalismo, e al contempo l’orgoglio per aver deciso di non combattere più dalla parte sbagliata.

Riley e i suoi sono «fratelli in armi», e lo rimarranno per l’eternità, poiché «tra chi combatte fianco a fianco, e condivide la paura e il coraggio, le sofferenze e l’impeto, l’esultanza e lo scoramento… si crea un legame che va oltre la morte». Un legame che impedisce al maggiore Riley, una volta scampato alla forca, di perdonarsi per «essere sopravvissuto, sarei dovuto morire insieme a loro».

Confessioni che ricordano, ancora una volta sul versante musicale, la splendida ballata di un cantautore tra i più impegnati del panorama britannico, Billy Bragg, che nella sua Tender Comrade scrive: «Brothers in arms in each others arms / Was the only time that I was not afraid».
Qui il gioco di parole arms (armi) / arms (braccia), rende con grande efficacia quell’unione peculiare tra individui, stretti all’ombra di un’unica volontà, che forse si concretizza davvero soltanto quando il prezzo della vita non può che essere la morte.