Sono nato in una terra ballerina e fin da bambino ho ascoltato i racconti dei miei nonni, di Reggio e Messina, sopravvissuti al catastrofico terremoto del 1908, quello che ha fatto più vittime (100mila morti) di tutti gli altri terremoti del XX secolo. Mio nonno paterno si è salvato sotto una grande trave di legno, dove ha nascosto la moglie ed una bambina di tre anni, mentre i miei nonni materni, sposatisi qualche mese prima del 28 dicembre di quell’anno funesto, si sono salvati miracolosamente: mentre la casa crollava sono scesi dalla stanza da letto usando le lenzuola annodate come una fune.

La paura del terremoto era così diffusa che quando costruirono la casa ci misero tanto di quel ferro, compreso nei muri divisori come testimoniano i progetti ritrovati, che oggi sarebbe inimmaginabile.

Poi, come si sa, la memoria delle catastrofi scema da una generazione all’altra ed arriviamo negli anni ‘70 del secolo scorso, quando si costruiscono palazzi sempre più alti, con pessimo cemento, in zone franose e sabbiose dimenticando che l’area dello Stretto di Messina è l’area a più alto rischio sismico d’Italia ed una delle più fragili e rischiose d’Europa. E qualcuno pensò bene che quella era la zona adatta per costruirci un gigantesco Ponte!

La perdita della memoria storica del terremoto non riguarda ovviamente solo l’area dello Stretto, ma tutto il nostro paese. Dal terribile terremoto del Belice del 1968 ad oggi abbiamo avuto una decina di eventi sismici disastrosi – nel Friuli, in Irpinia, a l’Aquila, a Mirandola e dintorni, per ricordarne solo alcuni – che hanno avuto in comune una sola cosa: i riti che si ripetono lasciando che niente si faccia sul serio per ridurre il danno di eventi sempre più probabili.

All’inizio è un coro unanime di solidarietà con le vittime, di impegni istituzionali di pronto intervento e immediata ricostruzione, di maggiore attenzione alle fragilità del nostro territorio. Poi la notizia terremoto viene sepolta da altre notizie e le popolazioni colpite devono protestare, urlare, farsi sentire in tutti modi per ottenere quello che gli spetta di diritto.

Dopo il terremoto del Belice furono Danilo Dolci e Lorenzo Barbera che mobilitarono le popolazioni locali: ci fu una marcia su Roma per chiedere ai parlamentari che i giovani del Belice fossero esentati dal servizio militare, che le imprese locali fossero esentate dalle imposte, che alle famiglie venisse dato un ricovero decente in attesa della ricostruzione (ma passarono trent’anni !).

Andò molto meglio in Friuli nel 1975, dove il metodo Zamberletti, allora responsabile nazionale della Protezione civile, fu vincente e le popolazioni locali riuscirono in breve tempo a ricostruire i propri paesi negli stessi luoghi.

Fu un disastro in Irpinia, per via delle speculazioni, delle infiltrazioni della Camorra e dei suoi intrecci con una classe politica corrotta ed inetta.

Non parliamo dell’Aquila e delle “new towns” che sono state costruite in seguito alle cosiddette “catastrofi naturali” , bene analizzate e documentate da Monica Musolino in New towns Post-catastrofe, Mimesis, 2012.

Ma, dovunque, al di là della qualità e dei tempi delle ricostruzioni non si è pensato che a pochi chilometri i paesi, i borghi, che non erano stati colpiti da quella scossa sismica lo potevano essere in futuro. Da parte di molti sindaci delle aree limitrofe alle zone colpite dal terremoto che hanno fatto a gara per entrare nel perimetro delle aree sinistrate per godere di qualche risorsa economica in più, magari per costruirci un campetto di calcio o un auditorium.

Non hanno pensato che bisognava mettere in sicurezza questi paesi, splendidi borghi, paesi- presepio di cui è ricco tutto il nostro Appennino e parte delle Alpi. Sono migliaia di borghi, frazioni, piccoli e medi paesi a rischio sismico dove non si è fatto e non si fa niente finché una brutale scossa di terremoto non ci ricorda che viviamo su una terra ballerina, o un alluvione non ci rammenta che siamo l’area della Ue, insieme alla Grecia, con il più alto rischio idrogeologico.

Ci si domanda : ma che si può fare in questi vecchi borghi con case costruite prima dell’esistenza del cemento armato, una sull’altra, ammassate senza respiro?

La risposta è semplice: si può fare tantissimo. La tecnica mette a disposizione mezzi e strumenti per rinforzare in funzione antisismica anche vecchissimi fabbricati fatiscenti, case costruite nelle nostre città d’arte nel Rinascimento o anche prima. Si tratta solo di volontà politica e di una consequenziale politica economica.

Per esempio, se i 6 miliardi di euro del “job disfact” non fossero stati regalati alle imprese ma investiti in una grande opera di messa in sicurezza dei nostri borghi antichi, dei nostri paesi di collina e di montagna abbandonati da troppo tempo, ne avrebbe goduto la vita umana innanzitutto, il patrimonio storico ed immobiliare, ed anche decisamente l’occupazione.