Esattamente quarantotto anni dopo l’agghiacciante «prologo» scritto del 1966, Neel Mukherjee – nato nel 1970 a Calcutta, un anno prima della fondazione dello stato del Bangladesh – conclude il suo romanzo-mondo, uscito del 2014, La vita degli altri (Neri Pozza, ottima traduzione di Norman Gobetti, pp. 605, € 20,00). È un mondo lontano dal nostro: tutto il Bengala, occidentale e orientale, sembra il luogo scelto da secoli dalla dea Fame per fondarvi il proprio regno, con l’immancabile corteggio di malgoverno, corruzione, rivolte, persecuzioni.

La carestia del 1770 fece milioni di vittime. Nel 1943 un’altra carestia si limitò a tre milioni. Nel 1974 un’epidemia di vaiolo costò migliaia di morti. The Hungry Generation (La generazione affamata) fu un movimento letterario che nei primi anni sessanta si formò a Calcutta per iniziativa soprattutto di poeti desiderosi di lasciarsi alle spalle il sentimentalismo di Tagore: andavano alla ricerca di di forme e contenuti nuovi. «Poesia, oggi ti dico addio./Il mondo è prosa di fame./La luna piena è come un tozzo di pane bruciato». Entrarono in contatto con altre letterature indiane, con i poeti della Beat Generation incantati dal trip indiano – soprattutto Ferlinghetti – e con chi, come Gunter Grass, previde che la popolazione disperata degli slums di Calcutta «sarebbe diventata la misura di tutto». Neel Mukherjee raccoglie il testimone e, a differenza di una accesa e pura combattente come Mahasweta Devi, che scrive le sue drammatiche storie in bengali perché i bengalesi ne prendano coscienza, lui scrive in inglese per un numero ben più vasto di lettori.

La vita degli altri ha i colori e la corposità di un’azione teatrale che si svolge in due luoghi differenti: nella grande casa a quattro piani della famiglia Ghosh, situata nel quartiere più elegante di Calcutta, e nella foresta dove vive «l’altro», il figlio traditore che sta dalla parte dei dividas, dei naxariti, dei disperati che non sono nemmeno in grado di comprendere l’abisso sociale in cui si trovano.

La vita degli altri è dunque un romanzo storico, sovrabbondante forse ma compatto come un’antica epopea, che apre – appunto – con un breve «prologo»: per fame un uomo uccide moglie, figli e si suicida, in un vuoto spettrale in cui nessuno è testimone, nessuno piange, nessuno condanna o perdona – come invece accade nel brevissimo, non meno angoscioso racconto di Kipling, «Little Tobrah» del 1888, in cui, spinto dalla fame, il fratellino butta nel pozzo la piccola cieca.
Mukherjee sa ben usare le strategie narrative e concentra in tre anni cruciali, dal 1967 al 1970, i destini di quattro generazioni di Ghosh, servitù compresa. Sullo sfondo l’implacabile crescendo delle azioni terroriste messe in atto dai naxariti e dai figli maoisti della borghesia cittadina. La saga familiare, dalla ricchezza alla povertà e alla vergogna, la pletora dei personaggi-parenti, gli intrecci segreti di amori e umiliazioni, le meschine lotte delle donne di casa, i vizi e le incapacità degli uomini che dovrebbero curare le sorti pericolanti dell’ impresa di famiglia, la famosa Charu & Sons, è affidata a un severo narratore in terza persona.
In lunghe lettere alla donna amata, mai spedite, Supratik confida i rischi, i dubbi, i progetti della sua vita di guerrigliero in clandestinità. La sua doppia lealtà – ai valori borghesi e alla missione rivoluzionaria – manca all’alto scopo, e pagherà con una orribile fine le proprie contraddizioni.

on pochi tratti Neel Mukherjee disegna un profilo, una azione, allude a sentimenti rapidi e quasi invisibili come il pudore, l’imbarazzo, la fascinazione, la passività. Un po’ di frecce avvelenate sono casualmente dirette ai poeti modernisti, chiamati ognuno per nome. Indugia invece a lungo su particolari irrilevanti per il plot, ma che aprono spazi di interiorità e di improvvisi splendori. La lista dei gioielli femminili è tutta luce dorata: baju, tagaa, hanshuli, mantasha, ratanchur, l’autentica collana bengalese a sette fili, la shaat-lahari haar …«pettini d’oro e forcine con decorazioni floreali per trasformare lo chignon in un giardino in miniatura costellato di pietre preziose» – anche se l’era delle tiare, dei diademi, delle catene d’oro che andavano dal naso all’ orecchio era già tramontata. Ancora più affascinante è la musica della foresta, «consumata illusionista», che seduce chi vi penetra.

Con altrettanta finezza di particolari, Mukherjee si concentra su momenti di orrore puro: il corpo torturato di Supratik, la lenta morte di un insetto, l’estatica uccisione di un nemico, la paralisi collettiva di fronte all’inatteso e all’incongruente, come nella scena del padrone impazzito, nell’auto accerchiata dagli operai, il gherao. «Da dove veniva tutto quel furore, tutto quell’odio? Gli scioperanti possedevano la terrificante bellezza di un serpente teso all’indietro col cappuccio rigonfio, pronto ad attaccare».

Ben due epiloghi differenti chiudono il romanzo: nel primo, il giovane Swarnendu Ghosh, il prodigioso innocente Sona, genio della matematica, ha vinto la prestigiosa medaglia Fields, e tornerà a insegnare in patria. Nel secondo, scritto nel 2012, in una notte di luna escono dalla foresta i giovani continuatori dell’opera di Supratik e vanno a piazzare un potente ordigno sul binario lungo il quale sfreccerà l’espresso Ajmer-Kolkata, con millecinquecento passeggeri a bordo. Se sono stati bravi a eseguire le sue istruzioni, erediteranno anche le sue colpe.