L’evoluzione del materiale e dell’abbigliamento sportivo nel Novecento, i negozi artigianali nelle città industriali del nord, riferimento di aristocratici e borghesi, soppiantati dai grandi marchi sportivi, che hanno «democratizzato» l’abbigliamento sportivo negli anni ‘70. Ne parliamo con Elena Puccinelli e Sergio Giuntini, autori di Eleganza e tecnica. Performance e stile nelle linee Italo Sport (Skira), un libro che intreccia storia dello sport e storia della moda.

La storia materiale dello sport può aiutarci a capire l’evoluzione dello sport nel Novecento?

Puccinelli: «La moda sportiva influenza in maniera evidente l’evoluzione della moda e ha dei riflessi sulla liberazione del corpo femminile, perché l’uso dei pantaloni, la sportivizzazione dell’abbigliamento femminile è andato di pari passo con l’emancipazione della donna nella società, è una componente del processo di liberazione della donna e del suo impegno nello sport. L’abbigliamento sportivo della donna costituisce una chiave di lettura nuova, alcuni aspetti sono stati indicati molti anni fa, ma poi sono mancati gli studi nella storiografia italiana che analizzassero certi passaggi, il nostro libro colma il vuoto di questi anni».
Giuntini: «Negli Usa, dove c’è un grande mercato sportivo, dalla calzatura agli attrezzi, ci si è resi conto da tempo che è un filone ricchissimo, per lo studioso di storia dello sport e per tanti altri segmenti della storia. Sport e moda sono un binomio assoluto, la storia dei materiali sportivi dal tartan alla costruzione dei cerchioni delle biciclette in titanio, le racchette, che nella storia del tennis hanno subito un’evoluzione tecnica straordinaria, sono aspetti che investono la storia materiale dello sport, ma si intersecano con una quantità di altre discipline e per questo rendono interessante la storia materiale dello sport».

Perché in Italia mancano questi studi?

Puccinelli: «La storiografia della moda e quella dello sport nella storiografia italiana sono recenti, da poco si consultano gli archivi».
Giuntini: «Le imprese che producono articoli e calzature sportive conservano gelosamente i propri archivi, come la famiglia Taffa, che ringraziamo, e questo facilita lo storico, mentre le società sportive, le federazioni e il Coni buttano via tutto. In Italia è più facile consultare gli archivi privati che quelli pubblici».

La moda sportiva ha interessato solo i ricchi o anche gli strati più popolari?

Puccinelli: «Un processo di democratizzazione nello sport c’è stato, una volta chi praticava sport apparteneva a classi sociali agiate, a partire dal fascismo e poi nel dopoguerra, il consumo di materiale sportivo ha riguardato progressivamente anche le fasce sociali più popolari. A Milano il marchio sportivo di Italo Sport era di élite, chi negli anni ‘60 del secolo scorso andava in montagna, utilizzava quel marchio. Italo Taffa aveva avuto questa grande intuizione dello ski market, dopo la sua morte avvenuta nel 1973, gli eredi hanno cercato di allargare la vendita ad altri marchi, ma i pantaloni Armani o i piumini Moncler ormai si compravano ovunque».
Giuntini: «Italo Sport è stato un marchio artigianale di alta qualità, riservato a un pubblico di una certa fascia sociale. Non ha potuto reggere il confronto con le grandi marche, meno qualitative, ma che avevano una copertura nazionale, questo processo è avvenuto quando lo sport da attività ristretta a una cerchia di élite si è democratizzato negli anni ‘70 e ‘80, però ancora oggi chi vuole materiale sportivo di alta qualità ricorre a una produzione artigianale di alto livello, mentre il vasto pubblico si rivolge ai grandi magazzini come Decathlon. Italo Sport aveva una conduzione semi familiare, con un fatturato di buon livello per la famiglia, ma non poteva reggere la concorrenza dei grandi marchi. È andato in crisi quando all’inizio degli anni ’70 dalla Francia arriva Vuarnet, che fornisce gratis attrezzature e abbigliamento alla nazionale di sci».

Italo Sport è stato un caso isolato?

Puccinelli: «A Milano c’era Brigatti, Ravizza, più boutique che negozi sportivi, producevano abbigliamento sportivo su misura».
Giuntini: «Operavano già alla fine dell’Ottocento, si servivano quelli che allora venivano chiamati gli sportsman. Brigatti e Ravizza ressero fino a un certo punto, poi Italo Sport li superò perché più tecnico. Questi negozi iniziano con la produzione di materiale per la montagna, la caccia, la pesca e l’equitazione, la fascia sociale di riferimento era di un certo livello, poi hanno prodotto anche per lo sci e il tennis, perché Italo Taffa era un ebanista. In quegli anni negozi del genere sorsero anche in altre città del centro-nord, uno a Torino, due a Genova, qualcuno a Roma, non risultano al sud».

Eleganza e tecnica nel materiale sportivo esistevano solo nei negozi artigianali di élite o si riscontrano anche oggi?

Puccinelli: «Allora erano in nuce, oggi i due elementi si trovano nel materiale sportivo. Quotidianamente vestiamo abbigliamento sportivo, calziamo scarpe da ginnastica, indossiamo t-shirt, polo, d’inverno i piumini, quello che una volta era l’abbigliamento sportivo tipico, oggi chiamato sportswear. Un processo veloce riguarda l’attrezzatura tecnica, sempre più rispondente alla performance. Oggi tutti quelli che corrono con le biciclette da corsa vestono come se fossero dei professionisti, indossano tessuti traspiranti, un fenomeno presente a tutti i livelli. La tendenza degli stilisti e dei sarti di alto livello è di entrare sempre più nel mondo del materiale tecnico dello sport, Armani ha disegnato le tute delle nazionali italiane per le olimpiadi. Lo fanno per interessi di mercato e per immagine. Il tema dell’artigianalità nello sport sta tornando di attualità, nei grandi magazzini di sport c’è così tanto, che chi può permetterselo cerca un prodotto sportivo ad hoc. Per la produzione dell’attrezzistica sportiva una certa attenzione è presente anche a livello amatoriale, i bambini iniziano a giocare a tennis a 6 anni, perché le racchette e le palline sono più leggere».