Dopo aver attirato le meritate attenzioni di lettori e critica nel 2009 con il suo primo romanzo a fumetti, Morti di sonno, Davide Reviati, pittore, illustratore e fumettista è tornato a stupire quest’anno con un lavoro tanto esteso quanto intenso, Sputa tre volte (Coconino Press). Con uno stile mozzafiato, il libro racconta la storia di un gruppo di adolescenti di provincia, tra cui spiccano Guido e Grisù, e del loro rapporto con la famiglia rom degli Stančič. Sputa tre volte ha i tratti del grande romanzo; un ritmo impeccabile, un punto di vista profondo e ben caratterizzato e uno stile narrativo e grafico compiuto con cui l’autore affronta temi impegnativi quali il passaggio all’età adulta, la diversità e l’integrazione. Ne abbiamo parlato con lui.

Se vogliamo usare la definizione “romanzo di formazione”, in Morti di sonno ti eri già confrontato con il genere. Ad anni di distanza e con una maturità narrativa diversa, in Sputa tre volte i protagonisti sono di nuovo adolescenti: li vediamo bambini e ne seguiamo i passi più o meno fino all’età adulta. Nel tuo nuovo romanzo però alla storia della loro crescita, si lega quella importante e dimenticata del popolo sinti. È un’ispirazione autobiografica o come arrivi a questo soggetto?

Tutto nasce sempre da un sentimento. Non so spiegarne le ragioni ma spesso è un’empatia fisica, prima che ideale. In questo caso ad esempio tutto parte da alcune figure centrali, come Loretta, che è un personaggio di fantasia ma si ispira a una figura reale che ho conosciuto e in qualche modo frequentato in passato. Tutto quello che mi trovo a raccontare ha a che fare con le mie esperienze vissute e con quelle mancate, con la mia vita concreta e quella immaginaria. Tutto nasce da questo groviglio, niente di quello che racconto è realtà certificata, ma posso dire allo stesso tempo che tutto è vero.

La parte centrale del libro-quella storica- è come una breccia nel racconto delle vicende dei ragazzi: è sospesa proprio perché scritta nel tempo, ma riesci magistralmente ad agganciarla alla narrazione, facendola scaturire dai banchi di scuola. Una scelta narrativa complessa, piena di “aperture”, interventi di altri personaggi, inserti che si aprono sul resto della storia. Ci puoi parlare di questo blocco centrale  e di quanto ha influito nella struttura del romanzo?

Il fatto che tu la trovi integrata ‘magistralmente’ mi riempie di gioia, perché è proprio quello che speravo. Non volevo in nessun modo che questa ‘digressione’ storica suonasse come una postilla erudita e pretenziosa, e meno che mai che diventasse un pezzo dal sapore vagamente espiatorio. Come a dire: questa è la storia vera, tragica e pulsante, abbiamo fatto il nostro dovere, ora torniamo alla nostra storiellina a fumetti. Volevo evitare questa trappola, bisognava tenere tutto insieme, la grande storia che si mischia inestricabilmente con le piccole vicende umane più marginali.

È chiaro che a livello narrativo questo capitolo presenta anche altri pericoli, di ritmo ad esempio. Una ‘deviazione’ di una quarantina di pagine rischia di minare l’equilibrio narrativo, ma racconta un’eredità che i personaggi portano addosso, che permette loro di ‘essere’, in un certo senso. Anche quando quell’eredità sembra non riguardarli direttamente.

Il tuo è un libro molto popolato, dove i personaggi principali sono sviluppati in modo rotondo, pieno. Eppure, leggendo ho avuto la sensazione che anche quelli secondari, portino un loro messaggio ben preciso, un dono, un’alternativa. Penso principalmente al professore e ai vecchi Stančič: è come se anche nel più odioso e schivo, anche nel personaggio più duro, riecheggiasse la vita, una spinta alla sopravvivenza; è un aspetto che trovo presente anche nella tua grafica e probabilmente è un qualcosa che sta alla base della compiutezza del tuo stile. Sempre che sia possibile rispondere, qual è l’origine di questa generosità?

Appunto, non lo so se sia possibile rispondere. Forse posso dire che la complessità dei personaggi è direttamente proporzionale all’amore che nutro per gli stessi. Credo che – almeno così funziona per me –, per costruire personaggi credibili tocca ‘sentirli’, tutti, i marginali e quelli secondari, ma anche i più odiosi e abietti.

L’unico che sembra davvero volersi far sedurre dalla morte è Guido- penso ai suoi frequenti “collassini”, alla perdita dei sensi e poi all’esperienza in mare di notte. La morte è molto presente nel romanzo, ne scandisce i tempi; eppure la vita, tradotta in animalità, istinto, libertà sembra avere sempre l’ultima parola. Ci sono dei riferimenti alle credenze rom o a un’impostazione nomade della vita?

Sono uno stanziale risoluto, non male per uno che racconta di rom. Però quell’animalità selvatica di cui parli, che ho visto spesso riflessa nelle dinamiche dei rom, è la stessa che ricordo nei compagni della mia adolescenza. Un vitalismo ostinato e contrario che mi ha sempre affascinato per come cercasse di allargare gli orizzonti, finendo fatalmente per toccare la morte. Anche quando era sfrenato e cattivo, ingenuo e gaffoso, ci ho sempre voluto vedere una certa generosità, il contrario di quell’amministrazione parsimoniosa della vita, tradotta di solito in un’avarizia sentimentale, che mi fa davvero paura.

Tra la diffidenza e le malelingue della gente, gli zingari sono calamita dei luoghi comuni e capro espiatorio di tutti i mali di provincia e ricambiano con debita diffidenza verso i gagi. Guido però, come suo padre, sembra avere un ascendente particolare sul fratello di Loretta, detto dal gruppo Al Pacino. Dalla sua, il ragazzo stenta ad apprezzare questo slancio, proprio per non perdere la fiducia dei pari, che con lo zingaro si divertono a esercitare la loro presunta superiorità. Il punto di vista di Guido è quello predominante, e in un certo senso al lettore non rimane che sposare questa visione, che non condanna ma neanche include del tutto l’altro. Come hai lavorato sul protagonista e sul suo rapporto con Loretta, Maurizio e in generale gli Stančič?

Con la memoria cruda delle cose, rifacendomi spesso a ciò che ho visto o che ho vissuto in prima persona. La realtà è talmente complessa che non c’è bisogno di aggiungere, anzi tocca lavorare di setaccio, trattenere solo le immagini ‘giuste’, per restituire almeno un vago sapore di quella complessità.

Loretta è incomprensibile, imbarazzante, misteriosa, e la soluzione più rapida è pensare che sia stolta per giustificare la propria diffidenza verso di lei. Sembra quasi riassumere tutto il pregiudizio gagi verso i sinti, è così?

Quello che mi interessava era farne una persona viva, restituire quello sguardo duro e perso allo stesso tempo, il moccio al naso da bambina trascurata, stonato su un volto così grave. È da queste contraddizioni che mi sento coinvolto, che nasce uno stimolo narrativo.

Il tuo stile, in cui le figure prendono volume sotto i fitti graffi della tua china, privilegia il dettaglio- penso agli intensi primi piani-e lascia volentieri abbozzati certi particolari soprattutto nei piani lunghi, dove le figure si riducono spesso a ombre antropomorfe. Qual è l’importanza dei ritratti, soprattutto quelli fuori griglia, nella narrazione sequenziale?

Io amo disegnare il volto delle persone e l’espressione degli animali. Si sa che per alcuni popoli fare il ritratto a qualcuno equivaleva a rubargli l’anima. Ecco, mi piace questa sorta di spiritualità, come se nelle pieghe di un volto ci fosse la mappa interiore di una persona. Desidero che i miei ritratti tengano conto di queste possibilità e non si limitino a trasmettere uno stato d’animo funzionale a quel momento narrativo o a caratterizzare l’indole di un personaggio una volta per tutte, come spesso succede nel fumetto.

Lo storico stato di discriminazione ed emarginazione di rom e sinti – come sempre accade – scaturisce sempre dalla nostra ignoranza, in senso letterale, la non conoscenza delle loro origini, tradizioni e credenze. La toccante storia di Papusza che chiude il libro ne è prova tangibile: nel tentativo paradossale di lasciare testimonianza scritta della cultura di un popolo nomade e illetterato, Papusza viene strumentalizzata dal potere, allontanata dalla sua stessa gente e infine condannata alla solitudine e a perdere la sua preziosa voce. Se da un lato la trasmissione della cultura potrebbe servire ad avvicinare i rom alla vita dei gagi, dall’altro li obbliga a piegarsi a regole che non li appartengono. Credi ci sia una soluzione a questo problema, che in fondo non abbiamo ancora risolto?

Lo sappiamo, è il nostro modo autoreferenziale di intendere la cultura e di divulgarla che non tiene quasi mai conto dell’identità, dei saperi e delle tradizioni dell’altro.

Oggi esistono scrittori, poeti, registi e intellettuali di etnia rom, si deve chiedere a loro se la nostra cultura è un’arma a doppio taglio.

Ci sono artisti che ti hanno ispirato nella rappresentazione dei sinti? Josef Koudelka forse?

Ho guardato foto di Koudelka e di altri, tutto è stato prezioso, ma quando disegno sono i volti che ho conosciuto, i luoghi e le emozioni che mi guidano.