Fu la presidente della camera Nilde Iotti nell’81, a chiedere a Tina Anselmi di presiedere la Commissione parlamentare d’indagine sulla P2. Perché, raccontò anni dopo, «al di là del rispetto che si era conquistata in tanti anni di battaglie parlamentari, c’era il fatto che soltanto una donna avrebbe garantito il paese che non ci sarebbero state insabbiature». La comunista che chiamò a un incarico tanto delicato la democristiana non intendeva certo dire che sarebbe bastata una donna in quanto tale. Già in quegli anni Tina Anselmi, scomparsa ieri a 89 anni nella sua CastelFranco Veneto dopo una lunga malattia, era una democristiana sui generis, capace di sostenere responsabilità molto grandi in condizione di isolamento o almeno di scarsa compagnia. Cattolica, è stata staffetta partigiana della veneta Brigata Cesare Battisti, maestra elementare nel dopoguerra ma anche sindacalista nella Cgil e poi nella Cisl dalla fondazione; responsabile dei giovani dc e di lì parlamentare dello Scudo Crociato dal ’68 al 92. Attivissima sul campo delle pari opportunità – a lei si deve la prima legge – era stata tre volte sottosegretaria prima di diventare, nel luglio ’76, ministra del lavoro e della previdenza sociale, la prima ministra in Italia. È ministra della sanità nei due governi Andreotti successivi, sarà fra i principali autori della riforma che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.

 

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Quello stesso Andreotti considerato eminenza oscura in molte delle testimonianze rese alla commissione P2, nella cui relazione di maggioranza nell’84 Anselmi scrisse che «tale organizzazione, per le connivenze stabilite in ogni direzione e a ogni livello e per le attività poste in essere, ha costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico». Minacciosi avvertimenti non la fermarono. Ma nelle aula di giustizia finì diversamente. Nel 2010 il Venerabile tentò persino di organizzare un incontro con per «discuterne in modo civile». Lei, già malata, rifiutò. Quella commissione non le portò fortune politiche, per non dire che gliele sbarrò. «È andata a toccare gli aspetti più delicati del potere di questo paese. Ma è andata avanti imperterrita», ha detto di lei ieri Rosy Bindi, l’attuale presidente della commissione Antimafia.

Tutta la politica ha reso omaggio. Ex dc oggi in auge come il presidente della Repubblica Mattarella: «Ne ricordo il limpido impegno per la legalità e il bene comune»; un ex segretario come Ciriaco De Mita: «È stata una donna del futuro ben prima che il futuro arrivasse». Non troppo distante dalle parole di Romano Prodi: «L’Italia le deve tanto, ben più di quanto si immagini, al suo impegno civile».

Nelle occasioni luttuose, è sempre in agguato la retorica e ancor più la rimozione. Ma non si può non segnalare l’ondata di messaggi di donne. Graditudine ancora prima che cordoglio. Bipartisan, benché la figura mal si presti. «Madre della Repubblica» per tutte, da Anna Finocchiaro a Mara Carfagna, due ex ministre delle pari opportunità nei governi Prodi e Berlusconi (il cui numero di tessera P2, venne portato a memoria da generazioni di oppositori). «Una bandiera delle conquiste delle donne» per la presidente della Camera Laura Boldrini, che anche a lei ha dedicato la «Sala delle donne» a Montecitorio. «Dico alle mie nipoti, fate la guardia perché le conquiste non sono mai definitive» diceva Anselmi in una delle ultime interviste .

Non manca la polemica. Dal movimento 5Stelle arriva un cordoglio a sua modo militante in base al quale un consigliere regionale attribuisce a Renzi l’eredità dei principi di Gelli, «Faremo di tutto per impedirlo, seguendo il suo esempio e votando No al referendum». Seguono zuffe d’ordinanza. Uguali e contrarie a quelle scatenate da un tweet di una giovane attivista del Sì che esprime lutto ma poi sbaglia e allega la foto di Nilde Iotti.

Quello che si può dire è che Tina Anselmi fu, come ricorda l’ex presidente Napolitano, «sempre in prima linea nelle battaglie per il rispetto dei principi costituzionali». Che non dava acquisiti una volta per tutti, come disse nel 2004 quando le fu riconosciuta la laurea honoris causa dalla facoltà di Sociologia di Trento: «Attingendo ai 24 anni di vita parlamentare e alle responsabilità dirette avute come ministro del lavoro e della sanità e, specialmente, come presidente o membro di tre commissioni parlamentari di inchiesta, posso testimoniare che esistono rischi reali che minano le basi di una democrazia». A torto, speriamo, o a ragione, ne è rimasta convinta fino all’ultimo.