Le elezioni sono cominciate: circa 6 milioni di voti per Clinton e Trump sono già stati raccolti negli stati che prevedono il voto anticipato. Ad Orlando si usano le biblioteche comunali; a Las Vegas i seggi sono stati allestiti in centri commerciali e perfino in un angolo dell’ Alberston’s, un supermercato nel sobborgo di Henderson. In 37 stati da questa settimana è in corso l’early voting, negli appositi seggi o via schede spedite per posta.

In tutto potrebbe essere più di un terzo della popolazione ad aver votato prima ancora dell’aperture dei seggi l’8 novembre. La vittoria potrebbe giocarsi sul filo di una manciata di preferenze racimolate in Nevada o Pennsylvania, in Ohio o in Florida (come imparò nel 2000 Al Gore). E mentre i sondaggi assegnano ancora alla Clinton vantaggi di misura in molti swing state Trump invoca «l’effetto brexit» e tuona contro «il complotto» che lo vorrebbe perdente. Ma l’unico complotto che pare esistere è – semmai – di segno contrario: una strategia coordinata per «attutire» il voto etnico e afro americano che tradizionalmente favorisce i democratici.

Non è esagerato dire che dalla soppressione del voto di colore dipendono in qualche modo sia le sorti di Trump che quelle a lungo termine di un partito repubblicano che si trova dalla parte sbagliata della storia demografica del paese. Per effetto della continuata crescita della popolazione ispanica (oggi già la maggiore minoranza etnica, al  17%), i banchi in America sono destinati a scendere sotto la soglia del 50% entro il 2030.

La affidabile base di bianchi (soprattutto maschi) che hanno eletto ogni presidente repubblicano del dopoguerra sta quindi inesorabilmente evaporando. I tre democratici degli ultimi 60 anni, Kennedy, Clinton e Obama, sono giunti alla Casa bianca solo grazie a coalizioni di una minoranza bianca più maggioranze nere, latine e asiatiche. L’attuale deriva demografica non lascia insomma ben sperare i conservatori per il futuro.

Nella versione strumentale di Trump il possibilismo democratico sull’immigrazione diventa il complotto per inondare il paese di minoranze per «sopraffare» il voto degli americani «veri».
Si tratta di un vecchio discorso calibrato per far leva su antiche fobie razziali che ricollegano questa campagna a tensioni ancorate nel sud ex schiavista e alla ferita del razzismo suppurante dai tempi della guerra civile.

Dopo la vittoria dell’Unione sugli stati confederati agli schiavi liberati venne dato il diritto di voto sotto la protezione delle forze di occupazione nordiste. Le amministrazioni federali tentarono in tal modo di pilotare da Washington l’integrazione delle popolazioni afro americane liberate in una democrazia rappresentativa. Al ventennio fallito della reconstruction, seguì una  violenta reazione. La restaurazione dei bianchi sudisti impiegò milizie come il Ku Klux Klan e segnò l’inizio della sanguinosa stagione dei linciaggi che si protrasse fino al ventesimo secolo.

Quegli eventi, glorificati nel Birth of a Nation – il manifesto suprematista di DW Griffith – decretarono la nascita di un regime di apartheid imposto con la violenza, con gli statuti segregazionisti «Jim Crow» e, crucialmente, con misure  che miravano ad restringere il suffragio universale con tasse d’iscrizione alle liste di voto e perfino l’obbligo di passare un esame di alfabetizzazione per tenere le maggioranze nere lontane dalle urne. Riconsolidato il potere bianco, le misure rimasero in vigore fino agli anni 60 e la loro abrogazione fu fra le principali rivendicazioni di Martin Luther King il cui maggior successo fu il voting rights act del 1965 negoziato con Lyndon Johnson.

Quello statuto comprendeva il sostanziale commissariamento degli stati sudisti cui venne tolta la facoltà di imporre regole elettorali senza l’avallo delle corti federali. Ma recentemente, una serie di sentenze promulgate dalla corte suprema a maggioranza repubblicana e implementate da legislature statali controllate dal Gop, proprio nel cinquantenario del voting rights act hanno cominciato a eroderne le garanzie. A partire dal 2014 diversi stati – ad oggi almeno quattordici – sono tornati a istituire barriere al voto. Le nuove regole impongono l’obbligo di molteplici documenti per votare, penalizzando minoranze, anziani, giovani e popolazioni marginalizzate, specie in un paese in cui i documenti di identità non sono generalmente obbligatori e poco diffusi (è stato calcolato che nel solo Wisconsin 300.000 elettori non dispongano di documenti in regola).

Dopo che il North Carolina ha imposto l’iscrizione preventiva alle liste di voto nel 2014, almeno 2.300 elettori si sono visti respingere ai seggi. In ognuno dei casi le restrizioni sono motivate dal rischio degli stessi  «dilaganti brogli» di cui parla Trump, pur in assenza della minima prova.  L’accesso al voto rimane una ferita aperta nell’America di Ferguson e di Black Lives Matter. E la battaglia per l’accesso alle urne continua: anche nel momento in cui l’America deve scegliere il successore al primo presidente afro americano.

Non a caso in questi giorni c’è un film nelle sale americane, il documentario 13th, nel quale Ava DuVernay (già autrice di Selma) documenta con la partecipazione di Angela Davis i sistemi con cui, dopo l’abolizione della schiavitù (col tredicesimo emendamento), si è operato per limitare il peso politico degli afro americani.

Fra i più lampanti c’è la carcerazione di massa nel sistema penale-industriale del paese in cui languono 2,3 milioni di detenuti, i neri con una percentuale quadrupla dei bianchi. E per la legge federale in America un detenuto – anche dopo aver scontato la pena – non può più legalmente votare.