Stefano Fassina, rispetto alle elezioni europee il Pd ha perso 2.143.003 voti, 1.083.557 rispetto alle politiche 2013, 600 mila rispetto alle regionali del 2010. È il risultato della campagna «Io non voto il Pd» cresciuta nelle scuole?
Direi proprio di si, ha contribuito in modo significativo all’aumento dell’astensione e anche al travaso di voti verso altri partiti.

Verso il Movimento Cinque Stelle?
In particolare verso di loro. Il governo presieduto dal segretario del Pd ha compiuto svolte liberiste sul lavoro e sulla scuola, plebiscitarie sulla democrazia. I nostri elettori le hanno rifiutate perché sono decisioni che aggravano le condizioni economiche e alimentano la spinta delle forze antisistema che raccolgono la sofferenza sociale. In Veneto e in Umbria c’è stato il peggiore risultato della nostra storia. In Toscana un livello di astensione mai raggiunto prima. Al di là delle specificità regionali, questo voto è un segnale politico chiaro per il governo.

Sulla scuola il Pd andrà avanti come un treno. È sempre convinto di uscire dal suo partito se non ci sarà lo stralcio sulle assunzioni dei precari e la riscrittura della norma sul preside manager al Senato?
Continuo a sperare in una correzione del Ddl scuola, dopo uno sciopero generale a cui hanno partecipato oltre 600 mila docenti e personale Ata. Mi auguro che i gruppi parlamentari, più che Renzi, abbiano un sussulto di autonomia. Se non ci sarà, dopo un risultato elettorale così evidente, allora credo che un cambiamento politico sia irreversibile e dovremo cercare altre strade per rispondere alle domande della scuola, dei precari, delle partite Iva. Il Pd è ormai sintonizzato su Marchionne e sulla finanza internazionale.

Quando dice «dovremo cercare altre strade» non sta parlando solo in prima persona…
Su questo c’è una discussione con alcuni compagni della minoranza.

Crede che il risultato delle europee sia stato sovradimensionato e che a Renzi sia stato dato troppo credito?
Il 41 per cento delle Europee non ha retto alla prova del governo. Quel risultato è maturato in un contesto eccezionale dove Renzi ha saputo generare aspettative in un ampio arco di forze. Lui le ha affrontate mantenendo posizioni indefinite, e anche ambigue, su lavoro, scuola o riforma elettorale. Poi ha fatto scelte contraddittorie rispetto al programma elettorale di Italia bene comune. Così facendo ha rotto con una larga parte del nostro popolo.

Renzi dice invece di avere vinto le elezioni.
Nega la realtà come accadde dopo le regionali in Emilia. Dimostra debolezza. Vuol dire anche che sta preparando ulteriori forzature nei passaggi parlamentari. Questo rende ancora più urgente una riflessione su come rispondere alla domanda di sinistra che il Pd non intercetta più.

Cosa accadrà quando De Luca sarà sospeso da governatore della Campania come effetto della legge Severino?
Se sarà sospeso, la legge andrà applicata. È fuori discussione. Ciò non elimina l’evidenza dell’asimmetria di questa legge nel trattamento dei parlamentari e degli amministratori locali. Per i parlamentari serve una condanna passata in giudicato, per gli amministratori è sufficiente una condanna in primo grado. Per non parlare dell’abuso di ufficio. Per i parlamentari non c’è, mentre per gli amministratori è valido anche per casi insignificanti com’è accaduto a De Luca. Credo che questa asimmetria vada corretta perché non è un problema che riguarda un singolo, ma la nostra democrazia.

Cosa risponde a Raffaella Paita secondo la quale la sconfitta del Partito Democratico in Liguria è colpa di Pastorino?
È un tentativo patetico di scambiare gli effetti con le cause. La responsabilità è di Renzi e Burlando. Invece di affrontare i nodi politici hanno fatto un’alleanza con il centro-destra per vincere le primarie contro Cofferati.

Cofferati sostiene che il risultato di Pastorino è l’inizio di un lungo lavoro per costruire una sinistra, ma non ancora un partito di sinistra. È d’accordo?
Penso che sia l’approccio giusto. Abbiamo bisogno di una radicale discontinuità nella cultura politica e di programma della sinistra. Il punto fondamentale è il rapporto tra l’interesse nazionale e l’Europa. Dev’essere chiaro che nella gabbia mercantilista dell’euro la sinistra è morta. E da qui dobbiamo partire per capire come riaffermare sia la sovranità costituzionale sacrificata dall’agenda liberista, sia la dignità della persona come ci dice la dottrina sociale della chiesa interpretata da papa Francesco.

È sicuro che l’unico riferimento culturale della sinistra sia il Papa?
La sua critica all’individualismo liberista è di gran lunga la più radicale in circolazione, anche a sinistra. Mi rendo conto che questa non è l’unica interpretazione possibile, ci sono altri filoni di pensiero a cui non voglio rinunciare. Credo però che la forza comunicativa di Papa Francesco siano in pochi ad averla oggi.


Bisogna riformare l’Europa, come chiedono Podemos e Syriza, oppure uscire dall’Euro?
Dobbiamo affermare un’agenda di riforme radicali. Siamo l’Italia, e non la Grecia, con tutto il rispetto. E la dobbiamo affermare anche attraverso atti unilaterali. Va preso atto che gli Stati Uniti d’Europa sono una retorica sempre più vuota. Il punto è una politica economica che ci porti a riaffermare il primato della sovranità prevista dalla nostra Costituzione.