Dai Novalia a Banda Ikona, da Rieti a Tangeri, da Corteo a Sound City. Trent’anni e diciotto dischi sono la distanza del cammino musicale di Stefano Saletti. Da Corteo a Sound City, Stefano ha toccato i porti di Lampedusa e Ventotene, Istanbul e Algeri, Lisbona e Tangeri, Jaffa e Sarajevo… Ne è ripartito portandosi via il suono dell’oud, del bouzuki, dello tzouras; le parole del Sabir, antico esperanto delle genti di mare, e quelle napoletane, turche, arabe, macedoni, swahili. Tre decenni di carriera e la duplice candidatura al Premio Tenco 2016 con Cafè Loti (lui, Nando Citarella e Pejman Tadayon) e Sound City (lui e la Banda Ikona) sono valido pretesto per chiedere a Saletti di raccontarsi con parole sue; di raccontare, parole nostre, un’artista convinto che la cultura mediterranea sia frutto di incroci, sovrapposizioni, richiami provenienti da ciascuna delle culture che la compongono.
Il racconto comincia dai Novalia, 1986 «Eravamo ragazzi cresciuti sull’onda del rock, che da Rieti arrivarono nella Firenze dei Liftiba e dei Diaframma. Fu il produttore dei Diaframma a volere Corteo, rock cantato in italiano che rimandava ai Cure e ai Joy Division, disco che conteneva segnali acerbi dei futuri Novalia: i flauti di Raffaello Simeoni, il modo in cui utilizzavo la batteria. Il cambiamento partì da Sabir, 1988, prima idea di unire linguaggi diversi; un album vicino a certi tratti sonori dei Tuxedo Moon. Dal lavoro sulle musiche della tradizione reatina nacque, nel ’91, il suono dei Novalia. E fu un nostro brano in dialetto a vincere nel ’94 il Premio Recanati».

Leggendo i testi di Corteo, quasi tutti a tua firma, si ha la sensazione che il mondo intorno a te ti stesse già troppo stretto, che tu ti preparassi a spiegare le vele

Rieti è una città bellissima, circondata però dall’Appennino. Io, ragazzo, il mare, il Mediterraneo, potevo appena immaginarlo, la mia visuale era chiusa dalle montagne. Volevo andare altrove per esplorare altri mondi, altri linguaggi.

Riesci a identificare il momento in cui alla ricerca di una nuova vita ha corrisposto la ricerca di una musica nuova?

Particolarmente importante fu il 2003, quando mi chiesero di comporre e suonare dal vivo la colonna sonora de Le vespe, una commedia di Aristofane, all’interno del Festival di Siracusa. Da lì scaturì il mio progetto solista, poi confluito nella Banda Ikona. E decisi anche di diventare musicista a tempo pieno, per capire fino in fondo chi e che cosa sarei stato da grande.

Il tuo cammino mediterraneo comincia da Stari Most, disco del 2005, con la Piccola Banda Ikona; comincia da Mostar, Bosnia Erzegovina dopo la guerra dei Balcani. Componi nel corso di ogni viaggio, oppure lo fai al ritorno, riflettendo su quanto hai visto e vissuto?

Viaggio sempre con degli strumenti al seguito. Se non li ho, li compro sul posto. E sul posto mi vengono in mente idee, che registro in forma di appunti. Una volta a casa, mi accorgo di aver accumulato stimoli ed energia nuova, dei quali anche Sound City è figlio».

Un album, Oriental Night Fever, realizzato insieme al compositore algerino Hector Zazou e uscito due anni dopo la sua scomparsa nel 2008, sembra discostarsi non poco dalle tue rotte

Hector era un grande musicista e un personaggio geniale. Dovevamo realizzare un disco dai Madrigali di Gesualdo da Venosa, in chiave world. Ci ritrovammo a casa mia con Barbara Eramo per ascoltarli, ma Zazou, per caso, vide una compilation, Inferno, di brani dei Bee Gees, Donna Summer, Village People, Gloria Gaynor… Lui, entusiasta, si mise a gridare ‘Voilà l’idée, nous jouons la disco, la disco!’. Barbara e io eravamo a dir poco perplessi: suonare Donna Summer con l’oud. Hector lo fece in studio, e funzionava eccome, era divertente. A un terzo del lavoro, si ammalò. Andammo a trovarlo a Parigi, ci disse che Oriental doveva essere finito. Così è stato, anche pensando a lui».

Le terre, gli strumenti, la gente, le parole del Mediterraneo. In che modo le undici tracce Sound City esprimono questa realtà antica di secoli?

Vivo il Mediterraneo come un unicum, rispetto al quale ho cercato di allontanarmi mentalmente per trovare ciò che nella sua dimensione ci accomuna. È vero, da sempre le divisioni sono profonde. Ma altrettanto profondi sono gli elementi di aggregazione. Lo scrittore Jean Claude Izzo vedeva il Mediterraneo come un tracciato di strade comuni. Mare che diventa terra. I vicoli di Genova somigliano a quelli di Istanbul, Sarajevo, Tangeri. E si somigliano le facce delle persone, le cucine. Nelle differenze abbiamo un’appartenenza da condividere. Izzo ha scritto ‘Il Mediterraneo arriva là dove arriva l’ulivo’». Sound City è il canto collettivo, la speranza, di un Mare Nostrum senza marinai perduti.