Quando tutti consigliavano a Donald Trump, in caduta libera secondo i sondaggi ufficiali, poi dimostratisi inattendibili, di moderare i toni e tornare con maggiore cautela su alcune delle sue proposte più violente e oltraggiose, lui scelse al contrario di chiamare accanto a sé Stephen Bannon, noto per essere una delle voci più aggressive della cosiddetta alternative-right, la nuova destra culturale statunitense, che suggerì al miliardario newyorkese di proseguire nella strategia d’attacco che gli aveva già consentito di scalare le primarie del Partito repubblicano.

All’epoca, a soli due mesi dalle elezioni, questo discusso personaggio era stato chiamato in tutta fretta a sostituire come consigliere particolare di Trump il lobbista Paul Manafort, già collaboratore di dittatori e «uomini forti» di mezzo mondo, inguaiato da un’inchiesta della magistratura ucraina che lo accusava di aver ricevuto cospicui finanziamenti illegali dal partito pro-russo dell’ex premier di Kiev Yanukovych. Ora che anche grazie a quel suggerimento Trump è arrivato alla Casa bianca, un comunicato del suo staff ha annunciato che Bannon sarà nominato consigliere del presidente e capo della strategia politica nazionale e internazionale, ovvero la figura più importante, anche se non visibile a prima vista, della nuova amministrazione.

Se i nomi fin qui circolati, tra banchieri di Wall Street coinvolti nel crack dei mutui subprimes del 2008 e vecchie glorie del mondo repubblicano, a partire da Newt Gingrich e Rudy Giuliani, fanno pensare più ad una restaurazione conservatrice che ad una rivoluzione populista, è chiaro come il ruolo, per quanto informale, che spetterà a Bannon ne ribadisce il carattere radicale e in prospettiva «rivoluzionario» dello status quo della democrazia americana.

Sessantadue anni, ex ufficiale di Marina passato per Goldman Sachs, qualche esperienza come produttore a Hollywood, già consigliere di Sarah Palin, Bannon è infatti una figura di rilievo dei nuovi media di destra che premono da anni sui repubblicani perché assumano posizioni intransigenti e combattano apertamente il politicamente corretto specie sui temi razziali. Arrivato alla guida del sito di informazione Breitbart News dopo la scomparsa del fondatore Andrew Breitbart che lo aveva ribattezzato il «Leni Riefenstahl dei Tea Party», Bannon ha trasformato questo giornale online in unostrumento di battaglia politica sostenendo prima il movimento anti-tasse e anti-Obana e quindi la candidatura di Trump. «Il mio obiettivo – ha spiegato il neo-consigliere del tycoon – è sempre stato quello di costruire un sito d’informazione di destra, populista e anti-establishment».

Già megafono dei Tea Party, strumento di diffusione di ogni sorta di teoria complottista, contrario all’aborto, al punto di paragonare il Planned Parenthood all’Olocausto, e anti-femminista in modo viscerale, Breitbart News ha sposato fin dall’inizio la crociata di Trump contro i vertici repubblicani, facendo eco alle denunce del miliardario sul loro asservimento ai grandi gruppi economici favorevoli alla globalizzazione e ha sostenuto la sua crociata contro gli immigrati messicani. Durante le primarie del Gop, il sito ha preso di mira lo speaker repubblicano della Camera, Paul Ryan, inviando dei corrispondenti a casa sua nel Wisconsin, per accusarlo di aver costruito una recinzione attorno all’abitazione, mentre critica il muro con il Messico proposto da Trump.

Stephen Bannon in persona ha prodotto documentari a sostegno della «causa». Nel 2004, In the Face of Evil, un omaggio alla figura di Ronald Reagan; nel 2010, Battle for America, una celebrazione del Tea Party; nel 2011, The Undefeated sull’ex governatrice dell’Alaska e beniamina del partito del tè, Sarah Palin; l’anno seguente, Occupy Unmasked, rozzo attacco al movimento Occupy Wall Street, presentato come una banda di black blok. Inoltre, come cofondatore del cosiddetto Government Accountability Institute, nato per denunciare «le malefatte» dell’amministrazione Obama, sta attualmente lavorando alla versione cinematografiuca del libro di Roger Stone, altra figura ponte tra il Gop e gli ambienti radicali, sui presunti finanziamenti illeciti ricevuti da Hillary Clinton.

Come ha scritto il New York Times, la decisione del tycoon di affidare ad un «provocatore» come Stephen Bannon l’ultima parte della sua campagna elettorale, ha segnalato la volontà di Trump non solo di non recedere fino all’ultimo «dall’arroganza e dalla carica razziale dei suoi interventi», ma di realizzare al contrario la piena fusione «tra la sua candidatura e i più aggressivi tra i nuovi media di destra che ne hanno incubato e promosso l’ascesa, assicurandogli la loro chiassosa copertura di ogni sua iniziativa». Ora quei messaggi di odio partiranno direttamente dalla Casa bianca.