Council of Balance è un nome che Steve Coleman ha già utilizzato in passato per lavori per ampi organici, in particolare per l’album del ’98 Genesis & the Opening of the Way, e lo ha ripreso lo scorso anno per il Cd Synovial Joints, realizzato con una larga compagine – oltre venti strumentisti – composta da partner fidatissimi del suo gruppo regolare Five Elements e da altri musicisti del suo giro. Adesso Steve Coleman & the Council of Balance è tornato in Europa, e in conclusione del suo tour lunedì è approdato, per un’unica data italiana, al Teatro Duse di Bologna nell’ambito del Bologna Jazz Festival: ma questa volta, un po’ meno nutrito rispetto al disco.

Il council of balance dell’altosassofonista afroamericano si presentava infatti come la somma di sei musicisti della sua corte – Maria Grand, sax tenore, Jonathan Finlayson (che lavora anche con un’altra figura cruciale, Steve Lehman), tromba, Miles Okazaki, chitarra, Anthony Tidd, basso elettrico, Dan Weiss, batteria – più una decina di componenti – in maggioranza musiciste, tra archi, clarinetto, flauto, piano, trombone, tromba e percussioni – del Doelen Ensemble, una formazione classica nata nel ’90 e basata a Rotterdam, specializzata in musica contemporanea. Già la disposizione sul palco, con un quartetto d’archi, piano, clarinetto e flauto in prima fila, e Coleman e Finlayson discretamente in seconda, e dietro ancora basso e batteria, suggerisce già visivamente l’originalità dell’approccio del sassofonista: niente di più lontano dalla creazione di un fondale classicheggiante su cui stagliare un ruolo da protagonista. Il sax alto di Coleman è abbondantemente presente, caratterizza fortemente i brani, ma è «dentro» l’insieme, è come avvolto da una fitta tessitura orchestrale in cui gli archi hanno molto rilievo.

Nell’incedere, nella pulsazione, dove si avverte una forte affinità con il meccanismo di funzionamento della musica di un più anziano collega di Coleman, Henry Threadgill, così come nello stile di fondo e nel solismo del sassofonista questa musica è puro, inconfondibile Steve Coleman, dalla prima nota all’ultima. Ma è anche uno Steve Coleman diverso da quello – spigoloso, metropolitano, e con una componente di ossessività peraltro molto affascinante – a cui siamo più abituati: qui la sua asprezza si scioglie, è risolta, in una musica ariosa, in molti momenti persino distesa, piena di respiro melodico, e non nasconde una dose di lirismo anche nelle improvvisazioni del leader e Finlayson. Nel brano che ha dato il titolo all’album, la combinazione di minimalismo, frizzanti cambi di ritmo e rigoglio timbrico è magnifica. A ben vedere – lo stesso vale del resto per le creazioni di Threadgill – quella di Steve Coleman è una delle più fantastiche musiche da ballo del ventunesimo secolo.