Insomma, Steve Reich è un restauratore o un innovatore? Nell’incontro col pubblico a Ca’ Giustinian è lui stesso che pone il problema. Parte male, a dire il vero. Dice che dopo l’apparizione sulla scena musicale di Schönberg e poi delle nuove avanguardie dei Boulez e Stockhausen e dopo la gran voga della dodecafonia, venivano a mancare ai fruitori di musica elementi indispensabili come l’armonia e il ritmo.

Quindi è successo che a lui e ad altri compositori della sua generazione è toccato il compito di rimettere le due cose al loro posto. Perché si sa – osserva Reich, decisamente infelice – che con Schönberg e Boulez non si può battere il tempo col piede e, inoltre, si sa che la previsione di Schönberg («tra cinquant’anni il postino fischietterà la mia musica») non si è avverata.

Inutile notare che il postino non riesce a fischiettare nemmeno passi dello stesso Reich. Ma il compositore è molto simpatico. Sveglio, cordiale, conversativo. Gli piacciono le battute. E col procedere del discorso dimostra di sapere che le tante esperienze di ascolto e di studio – dal be-bop di Kenny Clarke al Coltrane degli anni ‘60 maturi, dai lavori di Berio (suo maestro per un paio d’anni) e di Cathy Berberian alle musiche native del Ghana e di Bali – hanno permesso alla sua scrittura musicale di configurarsi come un nuovo idioma, una lingua che si è aggiunta alle tante e variegate che muovono il mondo della musica.

Così Reich in conferenza finisce per descrivere se stesso non più come un restauratore, tipo Bonaparte dopo la Rivoluzione francese, ma come un inventore di linguaggi musicali, uno che mette in circolazione musiche ripetitive che sconvolgono le abitudini di ascolto, cambiano per l’ennesima volta le regole del gioco, forniscono ulteriori e diversi motivi di fascinazione e di riflessione.

La sera al Teatro alle Tese, dopo la solenne consegna del Leone d’oro alla carriera che il 58° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale gli ha assegnato – e mai premio fu più meritato -, Reich affida alla giovane orchestra del Petruzzelli di Bari diretta da un demonietto americano che si chiama Jonathan Stockhammer la verifica attuale del grado di freschezza della sua musica. O meglio: della sua musica di metà anni ’90, ormai lontana dal modello di «minimalismo astratto» della prima fase e aperta a una narratività più «realista» o «figurativa».

Come definirla? Mah! L’importante è non chiamarla minimalista, non lo è più secondo Reich.
Primo pezzo: Triple Quartet (1998). Quando si dice densità sonora nel timbro e nella pronuncia, quando si dice densità emozionale. Vanno forte gli strumentisti baresi. È quello che ci vuole per far capire che Reich, per quanto voglia apparire un po’ «revisionista» rispetto alla sua storia di azzardi minimalisti, è un compositore della contemporaneità. Pulsante. Metropolitana. Discordante rispetto ai dogmi ideologici del tempo nostro (successo, obbedienza). Le figure sonore scandite, aggressive, incalzanti dei tre quartetti d’archi su un ritmo costante, quell’ostinato che da sempre, piaccia o non piaccia la parola, è il tratto distintivo della musica minimalista americana, dominano la prima parte, concitata, del lavoro. Che poi si distende in un lago di suoni dove affiora la memoria di tanti adagi, di Mahler, chissà, addirittura del primo Schönberg (Notte trasfigurata). Sequenze di affetti perturbati.

Secondo pezzo: City Life (1995). Il peccato di descrittivismo pesa parecchio. Le modulazioni di maniera, pur suggestive per precisione e qualità dei timbri, il procedere un po’ come per un soundtrack, infiacchiscono la verve di Reich, tolgono all’autore ardimento, pregnanza, vastità di visione (che viene esaltata non limitata dalla struttura minimal di altri lavori e dello stesso Triple Quartet). Ma i petruzzellesi conStockhammer fanno comunque prodigi. Non rinunciano alla forza drammatica dell’eloquio, alla possibilità di dare carica eversiva all’azione sonora in corso. La città di cui si racconta la vita è New York. L’organico è ricco: 2 flauti, 2 clarinetti, 2 oboi, 2 tastiere campionate, 2 pianoforti, 2 vibrafoni, 1 percussione, violino, viola, violoncello, contrabbasso. I suoni campionati della città sono tanti, quelli quotidiani, e alcuni speciali come le grida dei pompieri accorsi dopo l’attentato al World Trade Center del 26 febbraio 1993.

Un altro breve brano di Reich lo ascoltiamo nel concerto pomeridiano di domenica 21 dell’Eco Ensemble di Berkeley. Nagoya Marimbas (1994) per due marimbe sembra «prima maniera» ma non lo è. Quanta melodia, quanta armonia, quanto gusto dello «sviluppo»! I due solisti lo suonano benissimo. Di un campione del post-minimalismo, John Adams, non possiamo godere molto. Il suo concertino per clarinetto e ensemble, Gnarly Buttons (1996), è un manifesto della mediocrità, non della semplicità, non della comunicazione.

Una melopea di chiara derivazione popolare e poi esercizi di armonia scolastica e tentativi non riusciti di creare atmosfere struggenti. Tutta un’altra musica per l’ensemble diretto da David Milnes con Minuteman Trail di Aaron Einbond in prima assoluta. Fischi tenui, sfrigolii, tocchi minuti delle percussioni e delle corde del pianoforte, tutto un formicolare di suoni campionati imitati dagli strumenti acustici. L’effetto è quello di un détournement «naturalistico». De la texture (2007) di Philippe Leroux, una costellazione di suoni sardonici, forti, molto orchestrati, funziona a metà, fino a quando diventa didascalica e stanca.

Meno male che Franck c’è, si potrebbe intonare sull’aria di un perfido inno di qualche tempo fa, e ancora in voga ma non troppo. Si potrebbe farlo a proposito della prima delle due giornate (20 settembre) del «preludio Steve Reich» della Biennale Musica 2014. Meno male che questo concerto dell’Eco Ensemble comprende come quarto e ultimo autore della scaletta il francese quarantatreenne Franck Bedrossian. Senza il suo mirabile Swing (2009) il concerto sarebbe stato ai confini della realtà. Ma non nel senso degli shorts di storie «para-normali» in bellissimo b/n che vediamo ogni sera dopo Blob su Raitre, ma nel senso che la fatuità e insussistenza dei tre lavori precedenti fanno dell’accadimento un qualcosa di irreale. Sicuramente di improponibile.

Pianos (2013) di Cindy Cox potrebbe andar bene come sfondo delle attività domestiche di una massaia in una farm dell’America profonda. Colpisce la remissività candidida-conformistica di questa compositrice, tale da far sospettare che il clima umano dell’era Renzi sia arrivato fin là (o è la nullaggine di Obama?). Un po’ più grazioso Delicate Texture of Time (2013) di John MacCallum, che usa con discrezione alcuni procedimenti ripetitivi, appunto delicati.

Decisamente ripetitivo o minimal che dir si voglia è Auditory Fiction II di Edmund Campion, in prima assoluta. Brano per due scatoloni di legno amplificati con i quali due percussionisti dell’Ensemble sciorinano un repertorio di figure che vanno da quelle vagamente reichiane di un tempo al drumming del jazz dell’età di mezzo, ma tutto con incredible (irreale, appunto) indifferenza al problema di interessare un qualsiasi ascoltatore.

C’è Bedrossian, però. Con il suo Swing per nutrito ensemble. Uno di quei salvataggi in corner della partita che fanno gridare al miracolo.

Si sentono echi di un free radicalissimo al limite del rumorismo, suoni brevi di infinita variabilità della forza che compongono un fittissimo reticolo (e lì si ammira la sapienza della formazione contrappuntistica dell’autore), suoni «dal sottosuolo» quasi misterici interrotti da guizzi ultra-free del sax soprano o baritono, una proliferazine febbrile di suoni «senza gravità», febbrile eppure gentile. Gran lavoro. Compositore sommo. Piacerebbe inventare un qualche tipo di Leone apposta per lui.