Il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo Da Vinci ha recentemente avviato una collaborazione con l’Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea (Torino), sede distaccata del Centro Sperimentale di Cinematografia, per il recupero e la valorizzazione di un fondo eterogeneo di pellicole presente nelle collezioni museali. Dobbiamo dunque alla grande esperienza dello staff dell’Archivio il merito del recupero dell’opera.
Diego Pozzato ha curato il restauro digitale. Il supporto originale comprende quattro rulli in nitrato positivo, formato 35 mm, riversati ad una risoluzione di 2,3K. I file risultanti sono stati montati e sincronizzati, cercando di minimizzare la mancanza di alcuni fotogrammi a fine rullo, con un intervento di taglio della colonna sonora, che invece era intatta. Le immagini sono state poi stabilizzate digitalmente e ripulite dai segni di polvere e graffi tipici delle copie di circolazione.
Il direttore Sergio Toffetti ha sottolineato l’importanza storica del ritrovamento: non solo il film lega due figure di spicco della cinematografia dell’epoca (Michal Waszynski e Vittorio Cottafavi, ndr), ma il confronto tra le due diverse versioni, polacca e italiana, è una testimonianza significativa del rapporto tra il cinema e il clima del dopo-resistenza in Europa. La versione italiana, più corta e alleggerita nel tono, sembra aver subito un’operazione di «de-politicizzazione». Nel finale della versione polacca si allude ad una prosecuzione della resistenza nazionale dopo la guerra, mentre nella versione italiana l’accento è sul dramma sentimentale dei personaggi. L’atteggiamento è coerente con quello della cinematografia neorealista dell’epoca, che quasi sempre sorvola sul tema della mancata risoluzione dei conflitti in atto durante la resistenza. È interessante trovarlo applicato alla realizzazione di una versione italiana di un film polacco.
Questa versione che vede la collaborazione di Cottafavi, continua Toffetti, nasce anche per far ottenere al film la nazionalità italiana con i benefici di legge. Grazie alle ricerche di Simone Starace in Archivio di Stato è infatti consultabile la corrispondenza tra quella che si dichiarava la «Produzione italiana» e la Direzione generale per il cinema che, probabilmente a buon titolo, avanzava forti sospetti sull’effettiva produzione italiana del film.
Rimane ora da chiedersi come mai la versione italiana di La grande strada fosse conservata al Museo. Qualche carta di archivio può aiutare a fare ipotesi.
Novembre 1954: Guido Ucelli, fondatore del Museo, scrive al Sindaco di Milano per rassicurarlo sulla decenza della condotta dell’istituzione da lui presieduta. Il vicino di casa, ossia l’adiacente parrocchia, aveva protestato presso il Comune trovando «disdicevole» che un’istituzione culturale possedesse una sala di proiezione propria.
Il cinema, 600 posti nel centro di Milano, accessibile gratuitamente con il biglietto del Museo, aveva iniziato da un mese l’attività, dopo solo un anno e mezzo di vita dell’istituzione. Tutto nuovo, tutto moderno.
E in effetti l’idea per l’epoca era originale. Se c’era chi non la capiva, c’era chi invece gioiva. Il 1 gennaio 1955 il Corriere della Sera rende omaggio al primo «Cinebref» milanese: sul modello di altri paesi europei, si proiettano ottimi documentari («cordiali» e privi di retorica) e pellicole di interesse culturale. Nell’idea di Ucelli, un museo «vivo» che partecipa del «divenire del mondo», deve avere anche un’intensa attività di «cinematografia educativa». Non solo scientifica: i film di finzione, raggruppati in rassegne tematiche, sono proposti a contestualizzare avvenimenti storici e fenomeni di attualità. Vista la recente sistemazione dell’archivio museale, ad oggi non sappiamo ancora come e quando la pellicola di Michal Waszynski e Vittorio Cottafavi arrivò al Museo, né se venne effettivamente proiettata. Nell’inventario del Museo la pellicola era attribuita unicamente a Cottafavi, forse poiché all’epoca era stato indicato come regista italiano del film. Il supporto in nitrato fa supporre che sia un lascito dei primissimi anni di attività del cinema. Forse il film fu preso in considerazione come film d’autore; forse come documento storico «didattico», per le interessanti scene girate dal vero durante l’avanzata dell’esercito polacco. Sicuramente oggi le immagini documentarie e il contesto in cui sono state diffuse – la storia di finzione con le sue varianti nazionali – sono di grande interesse storico e culturale.
L’attività cinematografica del Museo cessa negli anni Settanta. Restano in deposito circa duecento pellicole, oggi in via di esplorazione: non sempre rare, non sempre uniche, non sempre di successo. Come confermato dalla collaborazione tra il Centro Sperimentale di Cinematografia e il Museo, considerate nella loro natura unica di collezione e documento, hanno però ancora molto da raccontare: del cinema, dei musei italiani, di una sala sui generis e di episodi significativi della storia sociale europea.