Ogni libro di Emmanuel Carrère è in qualche modo la celebrazione di un rito eucaristico, da quindici anni a questa parte. Il regno, il suo ultimo romanzo (Adelphi, traduzione di Francesco Bergamasco, pp. 428, euro 22.00), ne è l’estrema, monumentale, mise en écriture e la sua crisi al contempo. Attraverso le storie che racconta, Carrère offre al lettore il proprio corpo attraverso un rituale e in virtù di quel rituale chiede di essere creduto. Offre se stesso – lo scrittore Emanuel Carrère – come parte della vicenda e garante della sua veridicità: in quanto suo testimone diretto oppure in quanto responsabile dell’immaginazione applicata a quella stessa vicenda.
A proposito dell’Avversario, romanzo al cui centro stava la figura di Jean-Claude Romand, reo di aver sterminato il 9 gennaio 1993 la propria famiglia, Carrère scrisse: «Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell’uomo (…). Di capire, infine, che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi». È il proprio corpo, fatto di occhi e cuore, di sguardo e immaginazione, a offrirsi come zona di transito obbligato tra il mondo e il lettore a cui quel mondo viene consegnato nel corso di quella particolare liturgia chiamata romanzo. Carrère si offre in sacrificio: che l’esperienza umana estrema vissuta da Jean-Claude Romand passi attraversare il suo corpo per poi raggiungere tutti, quel «ciascuno di noi» che nomina esplicitamente. Non si dà, per lo scrittore francese, alternativa.

Da questo punto di vista Vite che non sono la mia è ancora più esplicito. Pubblicato in Francia nel 2009 (e tradotto nel 2011 per Einaudi da Maurizia Balmelli), quello che a oggi resta il suo capolavoro esplicita ancora di più la posizione sacrificale, e dunque in qualche modo eucaristica, di Carrère: «A pochi mesi di distanza, sono stato testimone dei due eventi che più di ogni altro mi spaventano: la morte di un bambino per i suoi genitori, e quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. Poi qualcuno mi ha detto: tu sei uno scrittore, perché non scrivi la nostra storia? Era come un ordine, un impegno, e io l’ho accettato».

Per raccontare la storia delle due Juliette (la bambina spazzata via nel 2004 da uno tsunami sul Pacifico, e la cognata del narratore stesso, devastata dalla recidiva di un tumore), a Carrère non resta altra scelta che caricarsele su di sé, lasciare che la pelle le assorba. È un ordine, non può non accettare che quelle vicende personali facciano invasione, allo stesso modo in cui il cancro ha invaso il corpo straziato di Juliette. Raccontarle, però, significa invertire il segno, rovesciare la morte al tappeto: è vita quella che succede sopra il foglio. In quel romanzo, così innervato dalla sofferenza, il racconto veniva vissuto come riparatore dai protagonisti stessi, da quei sofferenti donatori di realtà: aggiustaci per favore il nostro dolore, tu che sai trasformare un mondo spezzato in una storia. Le famiglie distrutte dal lutto chiedevano in fin dei conti un miracolo: ti diamo frammenti, restituiscici senso, ti diamo una vita in frantumi, restituiscici una specie di ragione imperitura e una bellezza di conforto. La torsione vertiginosa, e la grandezza, di quel libro stava proprio nell’ammissione di uno scacco: il romanzo non può restituire intatto alla vita ciò che la vita ha spezzato, ma lo scrittore può trasformare in proprie le vicende altrui, soffrirle, trasformarle in vita propria, patirle per poi condividerle, restituirle. C’era qualcosa di catartico per tutti: «Lei piange, piange anche lui, c’è un che di tenero nel piangere insieme (…). E io che sono lontano da loro, io che per ora, e sapendo quanto sia fragile, sono felice, vorrei lenire quello che può essere lenito».

Alla chiusura del libro (le ultime parole sono un’offerta: «perciò questo libro è per Diane e per le sue sorelle») il rituale eucaristico sembrava officiato. La posizione di Carrère poteva sembrare in qualche modo cristica – soffro io per tutti, questo è la mia missione – anche se in fin dei conti fallimentare. Nessuna redenzione né consolazione, solo compassione. Eppure al tempo stesso c’erano una postura, e persino un’incertezza e un imbarazzo, che erano piuttosto da evangelista. Essere testimone (e al tempo stesso doverlo per molti versi immaginare) del mistero della sofferenza e della vita. Quella di Jean-Claude Roman, prima di tutto, delle due Juliette e delle loro famiglie, persino per certi versi di Eduard Limonov. È qui che nasce Il Regno, che pur non avendo una trama veramente raccontabile, racconta (anche) la storia dell’evangelista Luca, in un periodo compreso tra il 50 e il 100 dopo Cristo – «quando nessuno immaginava ancora di vivere ‘dopo Cristo» –, in un’ambientazione che si divide tra Gerusalemme, Roma e la Grecia di ieri e di oggi, ma anche la Parigi attuale, lo studio di Carrère in rue du Temple, la sua abitazione, Cannes, l’Italia.

«Immagino la notte che deve aver passato Luca dopo queste parole. L’insonnia, l’eccitazione, le ore trascorse a camminare per le strade bianche e squadrate di Cesarea. (…)Penso alla notte dopo la morte di mia cognata Juliette e alla nostra visita al suo amico Etienne, dalle quali è nato Vite che non sono la mia. Un’impressione di assoluta necessità. Ero stato testimone di qualcosa che doveva essere raccontato, e toccava a me farlo, e a nessun altro. (…) So che bisogna diffidare delle proiezioni e degli anacronismi, eppure sono certo che vi è stato un momento in cui Luca si è detto che quella storia doveva essere raccontata e che lo avrebbe fatto lui». E così fa Luca, così fa Emmanuel Carrère dopo essersi messo in contatto con Jean-Claude Roman. Prende pezzi di mondo, dolore in frantumi e si propone di rimetterli insieme, di aggiustarli, chiede che ci si fidi di lui almeno per quanto riguarda la verdicità dei fatti, e poi fallisce. «Luca si propone di fare opera di storico. Promette (…) un’inchiesta sul campo, un resoconto affidabile: un lavoro serio. E che cosa fa subito dopo aver enunciato questo programma, già a partire dalla riga successiva? Un romanzo. Un vero e proprio romanzo». Attraverso le informazioni parziali di Luca, la sua amicizia con Paolo, lo scandalo di una dissidenza ebraica che si pone come spina nel fianco, la potenza generatrice di storie di un sepolcro vuoto, Carrère costruisce un regno che è quello di cui l’uomo, e lo scrittore stesso, si dota ogni volta che si affaccia su quel vuoto. «Bel pretesto, il tuo San Luca», gli dice Hélène, nel romanzo, confrontandosi via mail con lui sulla veridicità o finzione di un filmino pornografico scaricato su internet.

Eppure questo romanzo, che è prima di tutto la messa in scena di una confessione, ancora prima che di una conversione («In un certo periodo della mia vita sono stato cristiano. (…) Lo sono stato per tre anni. Non lo sono più») è la monumentale, sontuosa e faticosa insieme, chiosa a tutto quello che Emmanuel Carrère ha scritto sin qui. È un libro radicale, in qualche modo ultimo, il rischio di una confessione per certi versi paradossale. Perché questo è il più autobiografico, pur essendo quello in cui parla meno di se stesso, il che potrebbe deludere il lettore che sfoglia i suoi libri con indice morboso. Se per raccontare le vite altrui aveva bisogno di tramutarle in vita propria, e dunque di raccontarsi, ecco che per raccontare di sé, con un geniale e quasi sillogistico procedimento inverso, deve raccontare di Luca. Lascia che si dipani la sua storia, e la storia della nascita del cristianesimo nel primo secolo depo la nascita di Gesù. Per pagine e pagine si srotola il racconto in una terza persona che è in realtà una prima silenziosa, che lascia spazio agli altri – e che fa pensare di continuo: è un romanzo, un vero e proprio romanzo.

«Mi piace la pittura di paesaggio, mi piacciono le nature morte, mi piace la pittura non figurativa, ma più di tutto mi piacciono i ritratti. Del resto, nel mio campo mi considero una specie di ritrattista», scrive verso la metà del libro. «Poiché quello che si chiama Vangelo secondo Luca è una specie di ritratto di Gesù – ha commentato Carrère a proposito del Regno –, mi sono ritrovato a fare il ritratto del ritrattista». Ma il ritrattista cui allude, in questa analogia costante con Luca, è se stesso, e il ritratto che ne esce è l’autoritratto di uno scrittore che vede che il tempo gli consuma le certezze, e nessun restauro potrà mai restituirgli quelle originarie. «Non lo so», sono le ultime parole del romanzo. Quello che compare nel ritratto è il viso di uno uomo che si affaccia sopra il vuoto, e che di quel vuoto – di quel terrore – ha raccontato libro dopo libro la grandezza e l’estensione. E che ha poco a che fare con il cristianesimo, come si sarebbe tentati di dire in tempi di romanzi a tematica religiosa, ma con la paura di restare soli, senza che qualcuno ci inserisca dentro il proprio racconto – che sia un amore, un’amicizia o una comunità –, dentro la storia di un regno qualsiasi, piccolo o grande che sia, fugace oppure duraturo.