Forse per uno scambio di favori dopo la visita di Obama a Hiroshima, forse perché è necessario puntellare «l’alleanza della speranza» con gli Stati uniti in funzione anti cinese, forse perché la maggioranza dei giapponesi, secondo i sondaggi, apprezza la scelta e forse perché non chiederà scusa.

SONO TANTI I MOTIVI che potrebbero aver spinto Shinzo Abe – un premier che ha fondato la sua linea politica sul revisionismo storico, con il tentativo, perfino, di recuperare le forze militari proibite al paese dopo la seconda guerra mondiale – a rendere omaggio, 75 anni dopo, ai caduti americani a seguito dell’attacco giapponese alla base Usa di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941.

Un evento che causò la morte di migliaia di soldati americani (nel giorno dell’attacco ne morirono 1.177 marinai su 1.512 membri totale dell’equipaggio).

Il gesto di aggressione giapponese fu anche la svolta del secondo conflitto mondiale, portando Washington all’entrata in guerra e con una ricaduta terribile per i tanti giapponesi negli Usa, vittime (si parla di oltre 120mila persone) di veri e propri pogrom raccontati di recente da James Ellroy in «Perfidia» (pubblicato in Italia da Einaudi).

NON È LA PRIMA VOLTA, a dire il vero, che un primo ministro giapponese si reca a Pearl Harbor, ma è la prima volta che pubblicamente il premier del Sol levante parteciperà a una cerimonia proprio nel luogo dove venne affondata una corazzata americana. Nel 1951 – quando Abe ancora doveva nascere dato che è classe 1954 – fu la volta di Shigeru Yoshida recarsi alle Hawaii e poi a Pearl Harbor, ma si trattò di una visita oscurata dal trattato di pace di San Francisco appena stipulato. Poco prima di recarsi con Obama al memoriale, Abe ha specificato: «Voglio mostrare il nostro ricordo e dimostrare il potere della riconciliazione al Giappone, agli Stati uniti e al mondo intero». Non chiederà scusa, non è nel suo stile e forse non lo vuole nessuno in Giappone, soprattutto oggi, ma lo storico evento si ammanta di motivazioni riassumibili sotto l’etichetta di «realpolitik».

ABE HA BISOGNO di questo momento per ricordare agli Stati uniti l’alleanza con Tokyo, prima che a Washington si sistemi definitivamente Trump. Il neo presidente ha già parlato con Abe, è stato il primo rappresentante di un governo straniero a incontrarlo dopo l’elezione, ma i messaggi mandati dal miliardario sono stati ambigui al riguardo. Abe non aveva finito di dire quanto fossero importanti gli Usa per il Trattato di libero commercio del Pacifico (il Tpp) che Trump affermava di non volerlo onorare in alcun modo, finendo per riportare nell’orbita cinese paesi determinanti per la scacchiera del Pacifico. Donald – inoltre – ha già smosso pericolose acque con la Cina, rivale di Tokyo ma potenza regionale che perfino il Giappone tutto sommato vorrebbe ragionevole e non aizzata da una presidenza americana che non promette niente di buono.

L’EVENTO HA UNA SUA VALENZA anche regionale. Abe si rammarica e ricorda l’orrore giapponese contro gli Stati uniti mentre continua a fare orecchie da mercante rispetto alle tragedie provocate dai giapponesi nei confronti di altri stati asiatici. Non a caso ieri Pechino ha colto la palla al balzo: «La visita a Pearl Harbor è il desiderio di una sola parte di porre fine alla storia della Seconda guerra mondiale», ha dichiarato la portavoce del ministero degli esteri Hua Chunying. «Il Giappone non può voltare pagina senza riconciliarsi con i paesi vittima in Asia, inclusa la Cina», ha aggiunto Hua sottolineando che Abe deve smettere di «evitare la questione principale e fare una riflessione profonda e sincere sulla storia di aggressioni» del paese «per poter rompere in modo chiaro con il passato».