Inaugurato a passo di danza il Festival di Torino, con Roberto Bolle, star internazionale, piemontese di origine, protagonista del film che sarà nelle sale ancora oggi e domani distribuito dalla Nexo: L’arte della danza. La regista è Francesca Pedroni, critica di danza e nostra storica collaboratrice che è riuscita a portare al grande pubblico uno spettacolo di élite.
«Ho potuto ballare coreografie che normalmente non ballo – ha detto Bolle – altre le ho condivise con altri artisti nel tour Bolle&Friends, che abbiamo portato nel 2015 a Pompei, Caracalla, l’Arena di Verona, tutti luoghi con una magia particolare. Nel film si vede uno spaccato di vita: backstage, preparazioni, prove, viaggi, momenti di relax, concentrazione, balletto e immagini private. Sono contento che la regia sia di Francesca Pedroni, che mi conosce fin da quando ero bambino».

Effettivamente non sarebbe stato alla portata di chiunque entrare in un mondo così ermeticamente chiuso come quello della danza, che ha riservato qualche sorpresa perfino alla regista: «Ci sono stati momenti – dice Pedroni – in cui ho pensato: forse non ho capito chi è veramente Roberto Bolle. Mi ricordo una scena con tutta la troupe a Pompei: quando sono tornata per provare la disposizione delle telecamere lui a mezzanotte era ancora lì che provava, lavorava. In quel momento ho capito che non si allena solo nel momento in cui cambia costume, è una ricerca perenne della perfezione. Questo si vede nel documentario».

È un allenamenti iniziato fin da quando a 12 anni il danzatore andò alla scuola della Scala, lontano dalla famiglia: «Sono stati anni difficili e conflittuali, fino a quando ho capito che la danza sarebbe stata la mia vita. Il successo non mi ha travolto, è stato raggiunto con scelte calibrate fatte passo dopo passo. La danza ti dà valori molto saldi, soprattutto una dedizione completa al lavoro sul corpo per superare i propri limiti. È un messaggio positivo per i giovani vedere il sacrificio e la passione, non dare nulla per scontato: anche quando si arriva all’apice bisogna continuare la ricerca della perfezione, che non esiste ma a cui si tende».

Bolle analizza il film mettendo a confronto la leggerezza che deve portare sul palcoscenico e quella che deve trasparire sullo schermo: «La leggerezza fa parte del mestiere insieme alla forza e alla potenza. La danza è un insieme di opposti, di armonia e grandi salti. Tutti questi elementi vengono fuori nel documentario attraverso i brani di grandi coreografi come l’Apollo di Balanchine o l’amore di Romeo e Giulietta».

Aggiunge a questo proposito Francesca Pedroni: «Quando si assiste a uno spettacolo dal vivo, a seconda dalla propria posizione in sala, si hanno diversi tipi di visione. Con la telecamera invece puoi avvicinarti e raccontare le sfumature, i virtuosismi, perfino i cambiamenti del corpo».
«E per quanto sia bello essere visti da un occhio esterno – dice Bolle – e per quanto abbiamo lasciato la più grande libertà di riprese a Francesca perché il suo è un occhio esperto, non è semplice mostrarsi così ai critici. Noi ci sentiamo pieni di errori».  

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Spettacolare l’arrivo al Festival del capitano Chelsey «Sully» Sullenberger, il vero protagonista della vicenda raccontata da Clint Eastwood in Sully. L’eroico pilota è stato autore del celebre salvataggio di 155 persone quando, nel dicembre del 2009, decise in pochi secondi come effettuare un «ammaraggio» di fortuna sul fiume Hudson con un aereo dell’Us Airways con il motore in avaria.

Dall’incedere dinoccolato e controllato che ricorda quello del regista (ma, dice, Tom Hanks lo ha incarnato perfettamente), Sullenberger racconta che un suo libro che raccontava quegli eventi capitò nelle mani di Harrison Ford, grande appassionato di aviazione, per poi finire in quelle di Eastwood, che un giorno suonò alla sua porta: «Non mi sono trovato davanti l’ispettore Callaghan, ma un uomo molto sensibile.

Anche lui aveva vissuto un ammaraggio di emergenza e con il pilota aveva raggiunto a nuoto la costa». Sarà perché in Italia abbiamo avuto di recente qualche problema con i capitani, ma negli Usa, dice, loro non sono tenuti ad abbandonare gli aerei per ultimi, né le compagnie consegnano gli elenchi dei passeggeri: lui aveva l’abitudine di tenere tutto sotto controllo ed ora con la sua autorevolezza lo indica come obbligo primario nell’aviazione civile. «Quel giorno tutti noi dell’equipaggio siamo stati all’altezza, perché ogni vita è stata salvata. Ho pensato: siamo stati una squadra».

Mentre sfilano questi personaggi, punte di diamante delle loro professioni (fino a raggiungere l’eroismo) modello per le future generazioni, un’immagine ci perseguita: quella del ruminante del film brasiliano Animal politico di Tião (sezione After Hours). È una mucca la protagonista che invade la scena e i pensieri e con la sua cantilenante voce fuoricampo fa considerazioni filosofiche per colmare il suo vuoto interiore. Rimescola generi del cinema brasiliano vecchio e nuovo, stilemi anni ’60, sertao e cannibalismo: irridente giocattolone oppure riappropriazione del linguaggio? Certo quel ruminante non passa inosservato.