«Il momento storico in Turchia è delicato, l’aria è cambiata ma io mi sento ancora libera di fare il mio lavoro. Inseguo la verità. Senza riserve».
Dalla fitta conversazione tenuta in inglese, appare evidente che è la forza dell’esperienza, ma anche la determinazione a far parlare Ayse Kulin, scrittrice e autrice cinematografica turca, conosciuta nel nostro paese per il suo precedente romanzo, L’ultimo treno per Istanbul (2015).
Dopo solo un anno, torna nelle librerie italiane con L’ultima famiglia di Istanbul (traduzione di Luca di Maio, per Newton Compton, pp. 320, euro 12, titolo originale Adı Aylin). Emancipazione, anticonformismo e lotta alle tradizioni sono gli ingredienti di questa biografia che disegna il profilo di un’eroina contemporanea, Aylin Devrimel. Il lungo e composito flashback corre veloce dal 1798 al 1995, delineando un fatto su tutti: Aylin è carisma, pragmatismo e ambizione.
Il prossimo 20 novembre, Ayse Kulin presenterà il suo romanzo al Bookcity di Milano, manifestazione che verrà aperta giovedì 17 da un’altra protagonista della letteratura turca, Elif Shafak, con Tre figlie di Eva, uscito per Rizzoli. Non è un caso che la rassegna libraria milanese abbia deciso di dedicare loro due importanti spazi proprio nell’annus horribilis del Paese, vittima della deriva antidemocratica di Erdogan.

Cosa pensa della recente situazione turca? Il ritorno all’islamizzazione voluto da Erdogan non rischia di allontanare definitivamente la Turchia dall’Europa?
Oltre il 50 per cento della popolazione in Turchia crede nella democrazia, nei Diritti Umani, e nei valori internazionali.
Siamo anche musulmani, ma con diverse interpretazioni dell’Islam. Molti d’impronta conservatrice, ma ciò non costituisce un impedimento per la laicità. Il problema sorge quando religione e nazionalismo diventano strumenti del discorso politico. A questa miscela si aggiungono le aspirazioni delle minoranze e le ingerenze straniere. Sembra un problema irrisolvibile, ma mio parere non lo è. Fino a quando la democrazia e lo stato di diritto hanno prevalso, tutti erano liberi di praticare la propria fede.
Se l’Europa ci avesse abbracciato nell’Unione – invece di usare un linguaggio xenofobo – i risultati sarebbero stati migliori. Per tutti. Il multiculturalismo turco e la sua forza lavoro avrebbero offerto all’Europa una boccata d’ossigeno, soprattutto in ambito economico. Nel frattempo, anche la democrazia turca ne avrebbe beneficiato. E non saremmo arrivati al colpo di Stato.

Molti intellettuali non sono ben visti nel suo Paese. Lei si sente di poter fare il suo mestiere senza ostacoli?
C’è stato un tempo in cui scrittori, pittori, musicisti – e altri intellettuali – erano tenuti in grande considerazione. Ho avuto la fortuna di vivere quel periodo. Ora l’atmosfera è decisamente cambiata. Nonostante questo, mi sento libera di fare il mio lavoro nel mio Paese. Mi sono occupata del problema curdo, ho scritto dell’amore gay, da molti ritenuto un tabù. E nel mio romanzo distopico del 2015, Il sole nascosto, emergeva chiaramente anche il mio pensiero politico. Sono una scrittrice consapevole: faccio il mio mestiere inseguendo la verità.

Perché questo suo libro esce in Italia molto tempo dopo l’edizione turca?
Posso solo dire di essere particolarmente emozionata per il fatto che i miei lettori italiani abbiano la possibilità di conoscere questo straordinario esempio di donna turca. Ho scritto il libro nel 1997 – due anni dopo la morte di Aylin – e dal mio editore turco viene ripubblicato ogni anno. Evidentemente, vende ancora molto bene.

Chi è Aylin? Una metafora della figura femminile in Turchia?
Aylin è stata un giovane ragazza turca, entrata come medico nell’esercito statunitense. Ha simboleggiato l’ideale di donna del 1923, anno in cui, dalle ceneri dell’impero ottomano, Atatürk fondò la Repubblica turca. Mustafa Kemal sognava uno Stato moderno, con una buona istruzione per tutti. Si può dire che Aylin abbia realizzato il sogno del padre della patria: una donna emancipata che, per di più, è riuscita a realizzarsi anche fuori dai confini nazionali.

Al contrario dei personaggi femminili, quelli maschili non godono di molta luce né di un particolare approccio introspettivo in questo romanzo. È una scelta voluta?
Aylin era una persona straordinaria: meritava un romanzo interamente dedicato a lei. Ma i miei lettori sanno che non ho scritto solo di personaggi femminili. Anzi. Penso, per esempio, alla biografia di Munir Nurettin Selcuk, compositore e cantante turco. O a The Bridge, la storia della costruzione di un ponte sul fiume Eufrate: è un libro che parla di uomini e delle loro lotte.

C’è un filo rosso che attraversa tutta la sua opera letteraria?
Sono un’autrice abbastanza versatile. Ho scritto diverse biografie femminili: quella di Fureya, ceramista nata durante il collasso ottomano, e quella di Turkan, una dottoressa che ha operato nelle zone orientali della Turchia, istituendo un fondo per l’educazione femminile nelle zone rurali. Aylin, Fureya e Turkan sono le mie donne emancipate. Forse l’elemento che ricorre – specie in alcuni libri – è il tema del riscatto femminile. Ho scritto di giovani costrette a sposarsi in età molto precoce. L’ho fatto per stimolare il pubblico ad acquisire la consapevolezza necessaria per arginare questo problema. Ma i romanzi che mi hanno resa popolare in Turchia sono quelli che raccontano la saga della mia famiglia e la storia del Paese: dall’occupazione di Istanbul nel 1918, continuando fino alla ricerca faticosa di una nuova costituzione. Per differenziare ancora la mia produzione, ho scritto anche un romanzo documentario sulla guerra in Bosnia del 1992-1996.

I titoli delle sue opere in italiano sono distanti dall’originale. Non crede che ciò possa penalizzare la storia?
Aylin proviene da una famiglia di Istanbul, quindi tutto sommato va bene. Ma ho ricevuto di peggio. Nessuno degli editori, al di fuori del mio Paese, mi ha mai consultata per i titoli dei libri. È accaduto anche in America, dove sono stati pubblicati con titoli inappropriati. Purtroppo gli editor li selezionano in base alle previsioni di vendita. Evidentemente in Italia hanno pensato che la parola Istanbul potesse attirare di più.

Vorrebbe dire qualcosa ai giovani intellettuali che vivono in Turchia?
A loro non piace ricevere consigli. Preferiscono scoprire ciò che è giusto e ciò che non lo è attraverso i propri errori. E poi non posso impartire lezioni proprio a nessuno: vado ancora in cerca della mia verità.