Il viaggio delle ragazze comincia sempre con il vento tra i capelli al tramonto sul pianale di un pick-up che attraversa le dune del deserto sognando un lavoro onesto in Europa – baby sitter, parrucchiera – e finisce di notte su marciapiede o lungo il ciglio una provinciale tra materassi rotti e buste di plastica.

Ma qualcosa è cambiato, qualcosa di grosso che rende più complicato ricostruire a ritroso la storia delle donne, per lo più nigeriane, ventenni e anche più giovani, che tra abusi sessuali, segregazioni, stupri, prostituzione forzata arrivano sempre più numerose da noi, in Italia.

È qualcosa – il percorso e anche il suo racconto – che si è frammentato, spiegano le donne della cooperativa sociale BeFree che ieri hanno presentato il loro nuovo rapporto, a distanza di cinque anni dal primo, realizzato intervistando le donne che vanno a ingrossare il Cie di Ponte Galeria, Roma, l’unico centro per identificazione e espulsione per migranti con sezione femminile nell’Italia dei nascenti hotspot e dell’Europa piegata da logiche securitarie a misconoscere i diritti umani e d’asilo.

Ciò che è cambiato – spiega Oria Galgano, una delle curatrici dello studio finanziato dalla fondazione Open Society, intitolato Inter/rotte e presentato alla Casa internazionale delle Donne – dipende anche dal passaggio della storia, dalle primavere arabe, dalla Libia delle bande armate di oggi, dall’entrata in scena dell’Isis e da come le organizzazioni di trafficanti si sono adattate al nuovo contesto d’area riorganizzandosi, stringendo alleanze e spezzettando le responsabilità e i rischi della tratta.

Ciò che cambia soggettivamente per le ragazze, spiega la sociologa Francesca De Masi – altra curatrice del libro che assume un deciso punto di vista di genere (scaricabile dal sito di BeFree) – è una difficoltà più grossa nel ricostruire le tappe della propria vicenda, e con il ricordo, la coscienza di essere vittime, nel distinguere il benefattore e l’aguzzino, il carnefice dal poliziotto, il diritto dalla trappola.

«Ciò che abbiamo notato nelle cento interviste e decine di colloqui con donne nigeriane – racconta Oria – è l’affievolirsi del ruolo della maman nigeriana, che in passato si occupava di tutto, del reclutamento in Nigeria, del trasporto, spesso accompagnando la ragazza o mandando un passeur di fiducia, fino allo sfruttamento nel paese di destinazione tramite il mix di ricatti voodoo e debiti da onorare».

Adesso gli attori sono diversi, spesso dai ruoli ambigui. Ci sono i «drivers», per il tragitto fino alla frontiera che spesso sono gruppi quasi amatoriali, poi c’è il mercato di delle schiave – il più grande a Agadez, dove quest’estate si dovrebbe insediare la missione Eucap Sahel-Niger – dove le maman ordinano la merce, riscattando le ragazze che le vedono come liberatrici, e poi ci sono i «ghetti» – o foyer – persino peggiori dei vecchi bordelli libici perché vere prigioni condotte da milizie arabe armate che spesso si confondono, nei racconti, con i soldati e la polizia in una confusione che rispecchia il caos libico.

Anche loro, i carcerieri libici- le ragazze li chiamano a volte «Asma boys» -, pur in condizioni di fame, sopraffazione, stupri, ribellioni per il cibo che scarseggia, un’ora sola per uscire a prendere aria di notte, si presentano come protettori delle detenute di fronte a maggiori violenze, sorta di pogrom contro gli africani, sempre latenti e minacciate. Finché non le abbandonano «on the river», la formula per dire davanti al mare per essere imbarcate.

Si tratterà poi di ri-intercettarle all’arrivo, anche nei Cie, Cara e ora hotspot, pilotando le richieste d’asilo con risposte fotocopia, con storie studiate ad arte, ma mai per affrancarle dalla clandestinità che fa comodo all’organizzazione di struttamento.

L’Oim dice che le donne nigeriane sbarcate in Italia sono aumentate da 353 a 1.471 nel 2015 e BeFree che ne ha contate 3.432 su 19.932 fino a fine aprile di quest’anno, un numero mai così alto, sospetta che i trafficanti ne mandino un numero crescente perché mettono nel conto una larga percentuale di «disperse», nei meandri cruenti della Libia, in mare.

Molte delle sopravvissute chiedono subito l’asilo ma – come dice l’avvocata Carla Quinto – nel 62 per cento dei casi la domanda viene loro respinta mentre il 5 per cento del totale delle arrivate (1.215) diventano irreperibili, cioè si perdono o vengono fatte sparire.

Nel libro di BeFree – che contiene anche un capitolo sulle donne cinesi che arrivano in aereo per essere semi-schiavizzate nelle fabbriche italiane di connazionali – c’è anche un elenco di raccomandazioni per aggiornare le misure di protezione delle vittime di tratta a partire da stabilire condizioni di tutela senza condizioni di denuncia preventiva dei trafficanti e delle «maman» e di un rapporto di partenariato effettivo delle ong- già previsto dal nuovo Testo unico anti-tratta ma non implementato – per stabilire relazioni di fiducia.

Queste raccomandazioni – ha detto Maria Ludovica Tranquilli Leali a nome della Lobby europea delle donne, sono state segnalate a Bruxelles per essere inserite in una prossima risoluzione Ue contro i trafficanti.