Ripensando a un organismo come Kafka sulla spiaggia (Einaudi, 2006) o alla trilogia 1Q84 (Einaudi, 2011 e 2012) si è portati a giudicare Murakami Haruki come un valido architetto di enormi edifici narrativi, un regista di romanzi dalla vocazione epica, fluviale. Un creatore di invenzioni romanzesche dalla tenuta superba, impeccabile e accattivante. Giudizio cui giova la meticolosità con cui lo scrittore lavora.

Eppure altre superbe invenzioni narrative, fini e rivelatrici, sono i suoi nitidissimi racconti. Forse il Murakami più persuasivo, più duttile ed emblematico – ad una iridescente e opaco – è quello che si misura con la forma breve. Quello che consegna al lettore una pluralità di congegni serrati ed emotivamente densi.

Basti pensare a raccolte come L’elefante scomparso (Einaudi, 2009) o I salici ciechi e la donna addormentata (Einaudi, 2010), esemplare di vent’anni di luminosa scrittura. Appare ora una nuova silloge di racconti, numericamente contenuta, saldamente coesa, forse ancor più di Tutti i figli di dio danzano (Einaudi, 2005), che era variegata per situazioni, ma legata in sinopia dal trauma del terremoto di Kobe. Uomini senza donne, questo il nuovo titolo (traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi «Supercoralli», pp. 222, euro 19,00), indaga con eleganza nelle relazioni amorose (o para-amorose), focalizzandosi sulla perdita – nella fattispecie della donna – in un legame di coppia e scandagliandone le diverse risultanti di solitudine: «il turbamento che crea la morte di una persona ha una fortissima capacità infettiva». Un attimo di distrazione e si diventa «“uomini senza donne”. Sì, con un plurale di gelo infinito».

Come nella copertina di Sonno (Einaudi, 2014), anche in questo nuovo volume di Murakami compare una fluttuazione delicata e seduttiva: capelli di donna e filamenti di variopinte meduse. Mentre per Sonno la copertina era comune a tutte le traduzioni – il racconto era illustrato da Kat Menschik con suggestivo contrasto blu-notte e argento –, per la silloge recente la copertina italiana differisce da quella giapponese che raffigura un salice accanto all’insegna di un caffè, e un gatto grigio che gironzola lì intorno.

Entrambe le scelte, tuttavia, mettono in luce due aspetti del nuovo volume: nell’edizione italiana si sottolinea la femminilità, col suo potenziale seduttivo e urticante, con le sue trasparenze e mobilità equoree, di cui la raccolta offre un canto vibratile, dolce e dolente al medesimo tempo; nell’edizione originale a essere evidenziato è invece il racconto «Kino» che in qualche dettaglio tocca predilezioni o esperienze biografiche dell’autore. Quelle più care ai suoi fan, aneddotiche e rivelatrici, come spesso nelle vulgate, ovvero l’intrapresa di un locale tranquillo e gestito con cura – caffetteria/bar che offre ottima musica – con la presenza di un gatto che si affeziona al locale e al suo gestore, senza tuttavia perdere la propria felina indipendenza. Ma spandendo l’aura di un sorte favorevole: «poteva anche darsi che quel gatto avesse portato con sé un flusso positivo. Perché gli avventori, seppur gradualmente, cominciarono ad arrivare». Peter cat era il nome del locale, con ottime proposte di jazz e di rock, e icone gattesche, aperto da Murakami prima di diventare scrittore… Ma la storia di Kino, in verità, nasce e si dipana per una strada tutta sua, non autobiografica. Il grumo emotivo rimosso, la ferita psichica del protagonista, gentile e premuroso, ma inaspettatamente tradito dalla moglie, emerge a poco a poco annunciandosi per via simbolica: in autunno sparisce il gatto «nume protettore del locale» e compaiono uno dopo l’altro dei serpenti accanto al salice piangente. Se Kino ha un’inquietudine che stenta a far affiorare, un dolore represso, la sconosciuta con cui inizia una relazione ha ferite in superficie, la pelle segnata da piccoli crateri grigi: bruciature di sigaretta diffuse irregolarmente come «una costellazione invernale». Qui la solitudine del protagonista – che ha perso una donna come gli altri protagonisti di questi racconti – deve fronteggiare i ricordi e il risvegliarsi della coscienza per non lasciare il cuore «vuoto», per non farvi annidare quegli «animali ambigui» che sono i serpenti.

Altri elementi testuali potranno far sentire aria di casa agli amanti della narrativa di Murakami: intanto alcune genettiane soglie dei racconti. In primis quella che apre la silloge, «Drive my car», titolo di una ben nota canzone dei Beatles appartenente allo stesso album del 1965 in cui compare Norwegian Wood (Einaudi, 2006); poi la seconda soglia, «Yesterday» che sempre ai Beatles rimanda, sia pure a diverso album.

E poi il titolo del racconto eponimo, «Uomini senza donne», tratto di peso da un narratore americano più indietro nel tempo. Men Without Women rubricava Hemingway la sua seconda raccolta di racconti. Tutto questo per dire che l’utilizzo di componenti culturalmente evocative derivate da orizzonti sfalsati è ancora una volta, in Murakami, puntuale metodo compositivo oltre che cifra stilistica, e affabile appiglio donato al lettore che può sentirsi, così, intellettualmente stimolato e protetto. Culmine del metodo, in questi racconti, è ravvisabile in a una metamorfosi di ritorno, si direbbe, in una singolare (e non del tutto soddisfacente) restituzione. Il risarcimento di Gregor Samsa, svegliatosi uomo nel letto disadorno e sporco al centro di una camera spoglia, è per la verità, almeno all’inizio, tutto da verificare. Samsa innamorato prova attrazione per una donna tanto gobba da camminare quasi come un insetto e certo poco guardata dagli uomini, a meno che non abbiano «perversioni». Il disincanto di lei è, al negativo, la stessa immagine dell’innocenza primigenia, adamitica, di Samsa fatto uomo: lei conosce i bassi appetiti degli uomini, lui non sa come si indossino gli abiti, né come si mangi a tavola, a mala pena sta su due gambe – la sua incertezza nel ghermire e attraversare il mondo è significata da un bastone con cui sostiene i primi deboli passi e dal timore ricorrente di essere facile boccone per gli uccelli rapaci, a tal punto tenero e vulnerabile è il suo involucro esteriore.

Se qualcosa rivela la macrostruttura – di norma è così –, il racconto centrale, quarto di sette, è chiave di volta dell’arco narrativo, nonché sede di un testo da interpretare come dichiarazione di poetica, oltre che illuminazione esegetica su tutta la silloge. Il protagonista è un uomo solo e privo della libertà, la donna è portatrice di cure materiali – cibo e ordine – e portatrice di sesso e di parola. Le narrazioni di «Shahrazad», di professione infermiera, iniziano dopo il rapporto d’amore, nell’intimità: «sesso e storie erano legati al punto che non riusciva più a separarli». Il fascino della sua parola è vischioso: asseriva di essere stata una lampreda, nella vita precedente, e di aver contemplato la superficie dell’acqua fluttuando dissimulata fra le alghe; raccontava il suo amor fou adolescente, e il vizio di entrare di nascosto in case altrui. Perdere Shahrazad avrebbe significato interrompere la narrazione, lasciare «storie per sempre inascoltate» e perdere «tutte le donne». Con l’incanto della loro intimità: questo temeva Habara, «perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse».