Da diversi anni Roma è al centro di una riscoperta artistica dell’Unione sovietica. L’arte sembrerebbe essere divenuta lo strumento privilegiato attraverso cui continuare a discutere e interpretare la Russia tra il 1917 e la caduta del Muro. Se politicamente sulla vicenda sovietica è stato detto tutto (e il contrario di tutto), l’arte figurativa consente ancora margini di comprensione di un’esperienza storica determinante, capace anche di svelare la Russia contemporanea. È questa la cornice entro cui si situa l’esposizione «Storie sovietiche», inaugurata a dicembre e che chiuderà i battenti il 13 febbraio prossimo. Una mostra che però segna una discontinuità nel percorso appena descritto. Se fino ad oggi la proposta artistica si era concentrata sull’esperienza pittorica delle avanguardie sovietiche o sui reportage fotografici segnati da una profonda vena realista, la mostra in questione sperimenta un linguaggio stratificato multilivello. Fotografia e disegno si compenetrano, così come l’esperienza collettiva con quella individuale.

La mostra in realtà infatti raccoglie tre diverse esposizioni, che non si traducono in una somma di codici artistici ma in una sintesi espressiva che passa dalla fotografia all’arte figurativa senza apparente soluzione di continuità, fondendo un linguaggio. Rozalija Rabinovič (1885-1988), pittrice e grande interprete della propaganda degli anni ’30, dà forma all’arte collettiva del periodo più effervescente della produzione sovietica, quello a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, dove più forte è il tentativo di sintetizzare spirito rivoluzionario e codice artistico nei campi della pittura, del cinema, del teatro e della poesia. Sergei Vasiliev (1937), nome di riferimento del fotogiornalismo sovietico, premiato per ben cinque volte al World press photo, descrive momenti di vita quotidiana dell’Urss degli anni Cinquanta: la vita dei carcerati e dei loro tatuaggi simbolici, e i corpi di donne in acqua nel momento della sauna o del parto naturale.

Vite private apparentemente slegate dal contesto, ma che al contrario riescono a coglierne l’essenza. Danila Tkachenko (1989), infine, giovanissimo enfant prodige della fotografia russa, racconta alcune delle cosiddette restricted area sovietiche, quelle zone militari inaccessibili, simbolo materiale della contesa militare della guerra fredda, e oggi completamente in stato di abbandono, espressione emblematica di un’ideologia e di una vicenda oggi apparentemente sepolta sotto una coltre di neve informe. L’aspetto privato dei corpi s’interseca con la produzione collettiva della propaganda, attraverso un rimando capace di suscitare una comprensione maggiore degli anni vissuti e raccontati. I livelli si stratificano anche cronologicamente, data l’età degli artisti.

Si parte dai disegni della Rabinovič, totalmente inserita nel contesto sovietico staliniano, per finire con le opere di Tkachenko, ventisettenne artista completamente «altro» rispetto al contesto sovietico ma che attraverso le sue fotografie ne coglie alcuni degli aspetti culturali e politici e soprattutto il senso di fine che quell’esperienza oggi ci tramanda. Un passaggio di testimone, sia artistico che anagrafico, che però sottolinea anche una continuità tra la Russia di oggi e quella degli anni centrali del Novecento. Questa forse la chiave interpretativa capace di svelare il senso attuale della mostra: sotto le ceneri di un’Unione sovietica sepolta dalla storia e dal liberismo, cova una cultura diversa dalla nostra e ancora tutta da interpretare, vicina e distante al tempo stesso, e che ci mette in difficoltà ogni qualvolta proviamo a sintetizzarla attraverso canoni culturali occidentali.