Il 30 giugno 2001, in un’assolata giornata estiva Carlo Maria Maggi, medico veneziano e importante esponente di Ordine Nuovo, veniva condannato all’ergastolo (insieme a Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni) per la strage di Piazza Fontana.

Sappiamo che la Corte di Assise d’Appello prima e la Cassazione poi annulleranno quella condanna attraverso la sistematica svalutazione delle dichiarazioni di Carlo Digilio, esperto di armi ed esplosivi del gruppo, rintracciato dal giudice Salvini a Santo Domingo, estradato e progressivamente convinto a raccontare “dal di dentro” il ribollire della compagnia superomistica delle frange oltranziste del nazi-fascismo veneto degli anni ’70.

Perfino la definitiva sentenza su Piazza Fontana portava con sé, peraltro, la ribadita certezza della responsabilità nella strage di Franco Freda, Giovanni Ventura e delle cellule ordinoviste venete. Anche il processo per la strage di Via Fatebenefratelli dell’aprile del 1973, quando il falso anarchico Bertoli uccise cinque persone sul portone della Questura di Milano nel dichiarato tentativo di attentare a Rumor (reo di non aver proclamato lo stato d’emergenza dopo Piazza Fontana), indicò proprio il gruppo ordinovista di Maggi come mandante della strage ma non ritenne di avere sufficienti prove certe e specifiche nei confronti di quest’ultimo.

Erano i tempi delle eterne “trame golpiste”, pericolosamente in bilico tra le marionette del doppio petto e degli alamari e il relativismo morale degli idealisti armati: delle vittime straziate dalle bombe non si occupava nessuno.

Sembrava che il “santuario veneto” del terrorismo nero fosse inviolabile e che i giudici soffrissero di “miopia” giudiziaria, incapaci di cogliere nel loro insieme le centinaia di prove ed indizi accumulati nei processi, che impediva di mettere insieme tutti i tasselli di quelle storie che portavano immancabilmente dalle parti dell’isola della Giudecca, dove abitava il Dott. Maggi.

Ebbene, dopo due gradi di giudizio, duecento testimoni e più di un milione di documenti e verbali, proprio gli ermellini della Suprema Corte, il 21 febbraio dello scorso anno, annullando le tanto contestate assoluzioni di Maggi e Maurizio Tramonte per la strage di Piazza della Loggia, dettero per la prima volta un fondamentale scossone all’incerto e timoroso atteggiamento giudiziario nei confronti dello stragismo fascista.

Quella sentenza bacchettò i giudici «affetti da ipergarantismo distorsivo della logica e del senso comune» e li invitò a non seguire «semplici congetture alternative insufficienti a scalfire un complesso di prove di rilevante gravità».

Da queste premesse nasceva il nuovo processo davanti alla Corte milanese designata dalla Cassazione. Gli imputati: Carlo Maria Maggi, nel suo ruolo di capo indiscusso del gruppo terroristico e depositario dell’esplosivo utilizzato in Piazza della Loggia il 28 maggio del 1978 e Maurizio Tramonte, infido e reticente informatore stipendiato del Sid, doppiogiochista e opportunista. Astuto tanto da inventarsi la figura di inesistenti funzionari di polizia per coprire la sua reticenza ed evitare di autoaccusarsi di aver partecipato alle riunioni preparatorie della strage e cinico al punto da recarsi in piazza per controllare quanto sarebbe successo (come qualche testimonianza lascerebbe intendere).

Quando martedì sera, dopo un’altra giornata estiva afosissima, la Presidente della Corte di Assise d’Appello ha pronunciato la condanna all’ergastolo per entrambi gli imputati la commozione è salita silenziosa e fortissima nel cuore e nella testa dei familiari delle vittime presenti in aula: ferme, come ha detto Manlio Milani, a quella indimenticabile mattina del 28 maggio di 41 anni fa. Questa sentenza, se la Cassazione la confermerà, chiude il cerchio aperto 14 anni fa proprio a Milano ritrovando finalmente il filo delle responsabilità che si era andato perdendo nei meandri degli archivi giudiziari.

Manlio Milani che, come Presidente della Casa della Memoria di Brescia, ha sempre svolto una straordinaria opera di serena ricerca del senso profondo di quei dannati anni di stragi chiede a tutti di ripartire da qui, da questa certificata colpevolezza processuale, per iniziare un percorso di più chiara consapevolezza che consenta un giorno di chiudere quelle ferite.

Ho già avuto occasione di scrivere che l’accertamento giudiziario delle responsabilità per le stragi fasciste degli anni ’70 avrebbe, probabilmente, una decisiva influenza sulla necessaria condivisione della recente storia nazionale. La generazione dei ragazzi che dal ’69 si schierò pro o contro Valpreda, scelse la ribellione democratica alla cappa dei governi democristiani o, al contrario, si rintanò a meditare vendette nel mito delle armi e della purezza della razza, è oggi la generazione del potere nei media, in politica e all’università.

Il mancato riconoscimento di quelle colpe pesa ancora oggi, legittimamente, su tutti coloro che a vario titolo hanno scelto di stare dalla parte sbagliata, impedendo sia una ricostruzione condivisa della storia italiana che un confronto politico sereno scevro da sovrastrutture pregiudiziali.

Non escludo che tra le pieghe di questa sentenza si possa trovare anche qualche ulteriore stimolo per riaccendere un faro anche sul 12 dicembre del ’69 strage per la quale la Procura di Milano ha smesso ormai da anni di indagare. Eppure, proprio la pazienza e la pervicacia dei magistrati bresciani ha consentito di riannodare le tante tracce che hanno portato alla verità: è scandaloso accettare che Piazza Fontana rimanga un buco nero come nella fotografia del salone della Banca che tutti gli anni i giornali ripropongono a commemorazione.

Auguriamoci, dunque, che questa sentenza avvii un percorso virtuoso liberando tutti dai sempre oscuri riferimenti ad un passato innominabile o misconosciuto e ridando alle vittime di quelle inutili trame il diritto di sentirsi cittadini a tutti gli effetti.

* avvocato dei familiari delle vittime delle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia