La battaglia per Kunduz continua, sul terreno militare e della propaganda. Ricapitolando: sabato 3 ottobre, nelle prime ore del mattino, un aereo AC-130 americano bombarda a più riprese, per circa un’ora, il centro traumatologico di Medici senza frontiere (Msf) nella città settentrionale afghana, contesa tra i Talebani, che l’avevano occupata lunedì 28 settembre, e le forze governative coadiuvate da quelle internazionali. Bilancio: 22 morti, 12 tra medici e operatori di Msf e 10 pazienti, tra cui tre bambini.

Nelle ore successive il balletto delle dichiarazioni ufficiali. Sabato 3 ottobre, la posizione americana è equivoca: le nostre forze speciali erano sotto il fuoco nemico, ma nessuna certezza che i responsabili della strage siano gli Usa. Il giorno successivo, una nuova versione: l’attacco aereo è avvenuto «nelle vicinanze» dell’ospedale, che potrebbe essere stato colpito accidentalmente. Lunedì 5, un’altra piroetta: il generale Campbell, a capo delle forze Usa e Nato in Afghanistan, in una conferenza stampa al Pentagono sostiene che siano stati gli afghani a chiedere l’intervento aereo e che i soldati a stelle e strisce non fossero in pericolo. Martedì 6, in un’audizione al Senato, Campbell ci ripensa: è vero, ha detto il generale, gli afghani hanno richiesto l’intervento, ma l’attacco è il risultato «di una decisione degli Stati Uniti presa dentro la catena di comando degli Usa». «Anche se gli afghani richiedono un sostegno simile, la decisione passa per una rigorosa procedura americana», ha aggiunto. Rispondendo al senatore John McCain, a capo del Comitato per le forze armate, Campbell ha poi dichiarato che l’aereo d’assalto comunicava con i consiglieri americani sul terreno. «Signore, nelle immediate vicinanze c’era un’unita delle Operazioni speciali che parlava con l’aereo che ha aperto il fuoco».

Per Msf, il balletto delle dichiarazioni dimostra la necessità di un’inchiesta rigorosa e trasparente, affidata a un ente indipendente. «Basta. Anche la guerra ha delle regole», recita un comunicato reso pubblico due giorni fa. Msf chiede l’attivazione della International Humanitarian Fact-Finding Commission. Istituita nel 1999 nei protocolli aggiuntivi alla Convenzione di Ginevra, è il solo organo permanente che abbia il compito specifico di condurre inchieste sulle violazioni del diritto umanitario. Finora, però, non è mai stata usata, perché nessuno dei 76 Stati firmatari del protocollo (tra questi mancano sia l’Afghanistan sia gli Stati Uniti) ha mai deciso di promuoverne l’azione. La Commissione, inoltre, deve essere accettata da tutte le parti coinvolte.

Sulla stessa linea di Msf, anche Human Rights Watch. Brad Adams, direttore della sezione «Asia» dell’organizzazione, ha chiesto infatti «un panel investigativo speciale e indipendente, esterno rispetto alla catena di comando militare». Ma è indispensabile la pressione costante dell’opinione pubblica, ricordano dalla sede di Msf.

E prosegue la battaglia militare per Kunduz. Kabul e Washington si sono affrettate a dichiarare «vittoria», ma la città è ancora teatro di scontri, e i Talebani sembrano non mollare la presa, soprattutto nei quartieri meno centrali. Una cosa è certa: Kunduz suona come un campanello d’allarme – e un’occasione – per i generali Usa, che si sono affrettati a chiedere alla Casa Bianca una revisione del piano per il ritiro. Non sarebbe la prima volta che il presidente Obama cambia idea. Il 27 maggio 2014 aveva annunciato in modo solenne tempi e numeri precisi del ritiro: 9.800 truppe americane alla fine del 2014, ridotte a 5.000 entro la fine del 2015, per arrivare a una presenza minima, per tutelare l’ambasciata, alla fine del 2016.

Il 24 marzo 2015, in una conferenza stampa con l’omologo afghano Ashraf Ghani, il primo ripensamento: «Circa diecimila soldati americani rimarranno in Afghanistan per tutto il 2015». La riduzione del contingente sarebbe dovuta slittare al 2016. Ora, con il pretesto della battaglia per Kunduz, tutto è di nuovo in discussione. Campbell l’ha detto in modo diplomatico ma chiaro, nel corso della conferenza al Senato: «dovremmo garantire alla nostra leadership opzioni diverse rispetto al piano che stiamo attualmente seguendo». In altri termini, prolungare l’occupazione dell’Afghanistan, oltre il 2016. Una richiesta avanzata proprio nei giorni in cui ricorre il 14esimo anniversario dall’invasione: era il 7 ottobre del 2001 quando nei cieli afghani sono comparsi i primi cacciabombardieri americani B-52.