Cosa aggiunge la lettura del verbale della testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo per la presunta trattativa tra stato e mafia (86 pagine pubblicate ieri sul sito del Quirinale) alle conoscenze già acquisite? Dal punto di vista della ricostruzione storica degli eventi sui quali si concentra il processo, non molto. Dal punto di vista della messa a fuoco del fatto originario per il quale la procura di Palermo ha voluto la clamorosa – perché mai vista – deposizione del presidente della Repubblica, praticamente nulla.

Si tratta della famosa lettera di dimissioni dell’ex consigliere giuridico del presidente, Loris D’Ambrosio, lettera del giugno 2012 resa pubblica da Napolitano dopo la scomparsa di D’Ambrosio (un mese dopo). Il presidente ha detto ai magistrati di Palermo di non poterli aiutare a chiarire quel «timore di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi» messo per iscritto da D’Ambrosio, invitandoli piuttosto a rileggere quello che il consigliere aveva rivelato pochi mesi prima in un libro dedicato alla memoria di Falcone. Non molto. Ma di più, nel 2012, D’Ambrosio non aggiunse. Né Napolitano chiese. Percepì sì «l’ansietà» e «l’indignazione» del suo consigliere, ma non per gli «indicibili» fatti risalenti al periodo 1989-93, quanto per la «campagna giornalistica che» nel 2012 «lo stava ferendo a morte». E se ci fosse stato qualcosa da denunciare, è la notazione del presidente, «D’Ambrosio era un magistrato di tale qualità» che «se avesse avuto in mano degli elementi che non fossero solo ipotesi, lui sapeva benissimo quale era il suo dovere, andare all’autorità giudiziaria competente».

La deposizione al Quirinale ha riguardato anche i fatti del 1993, l’estate delle bombe di Cosa nostra a Roma e delle stragi a Milano e Firenze: allora Napolitano era presidente della camera. È l’argomento sul quale i pm palermitani hanno concentrato l’attenzione subito prima e subito dopo l’udienza al Quirinale. Eppure era già noto che gli attentati di Cosa nostra furono allora immediatamente letti come un tentativo di ricatto della mafia allo stato – era scritto nelle note dei servizi segreti, ne ha parlato in libri e interviste l’allora presidente del Consiglio Ciampi, arrivando a raccontare del timore di un golpe quando a palazzo Chigi saltarono i collegamenti telefonici nella notte delle autobombe. Ed era già noto che tanto Napolitano quando Spadolini (presidente del senato) furono nel ’93 per un breve periodo ritenuti a rischio attentato: l’aveva ricostruito il pm di Firenze Chelazzi. Le conferme di Napolitano fanno sensazione essenzialmente perché provengono oggi direttamente dal vertice della Repubblica. «La valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di governo in particolare – ha ricostruito il presidente a proposito delle stragi di via Palestro e di via dei Georgofili – fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia, si parlava allora in modo particolare dei corleonesi». Una conferma. Solo in parte ridimensionata dal passaggio successivo: «In realtà quegli attentati per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut-aut, perché questi aut-aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del paese e naturalmente era ed è materia opinabile» (corsivo nostro).

La lettura del verbale integrale è più interessante per chi voglia cogliere il clima di quella inedita deposizione al Quirinale. Con Napolitano che liquida il pm Teresi che lo interroga sul dibattito parlamentare del ’92 suggerendogli di andarsi a leggere lo stenografico – e il presidente del Tribunale Montalto che si intromette chiedendo alla pubblica accusa «domande più specifiche». O il pm Teresi che di fronte a Napolitano che difende la memoria del suo ex consigliere vuol mettere a verbale che «la procura non ha mai pensato che il consigliere D’Ambrosio fosse minimamente coinvolto». La tensione traspare evidente anche quando Napolitano risponde al pm Di Matteo che vuole chiedergli della chiusura del supercarcere di Pianosa: «Non ero predisposto a quesiti così specifici, altrimenti mi sarei fatto carico di una rilettura degli atti del parlamento» – come dire: sono disponibili per tutti. O infine quando il presidente strapazza l’avvocato Cianferoni, difensore di Riina, che prima vuol sapere da lui chi erano i confidenti di D’Ambrosio – «si legga il libro» di D’Ambrosio – e poi chiede chiarimenti anche sull’autobiografia di Napolitano: «Vogliamo fare un talk show sulla storia della Repubblica?».