La foto del bambino che il mare prima ha ingoiato e poi ha rigettato morto sulla spiaggia, metafora amarissima dell’infanzia inghiottita dai tumulti della vita, sembra aver prodotto un turbamento più duraturo del solito sull’incoscienza collettiva. Altre foto di bambini morti, in modi più orribili, sono svanite dal nostro immaginario quasi subito, bruciando rapidamente nel loro effetto raccapricciante.

Aylan dorme composto in un sonno senza sogni. Il suo -il nostro- destino ci appare come deprivazione sensoriale totale: perdersi in uno spazio senza immagini, suoni, odori, sensazioni gustative e tattili. Il bambino è caduto nel mondo inanimato dei suoi giocattoli, nella percezione è diventato un bambolotto. Tuttavia, mentre i bambolotti sono fatti per apparire vivi, animati, il bambolotto Aylan appare inequivocabilmente irreale, a-vitale. L’immagine raggiunge qui il massimo del suo effetto straniante. Nel mondo non ci sono lacrime in grado di dar senso a un bambolotto morto.

I bambolotti sono un tramite della relazione di desiderio dei bambini con il mondo, a partire da quando scoprono che le persone desiderate sono dotate di una propria soggettività e il loro possesso non è assoluto e scontato. Gli oggetti di legno, plastica, gomma, stoffa che essi trattano come esseri viventi, sono la rappresentazione simbolica delle persone amate ma, al tempo stesso, sono cose reali da toccare e «spupazzare» con eccitazione sensuale e intensità affettiva, creando legami coinvolgenti. Usando i bambolotti, i bambini danno forma personale ai loro desideri, sentimenti e pensieri e si impossessano della vita, creando uno spazio di sperimentazione e di libertà che li protegge dalle frustrazioni del rapporto con le persone reali. Si tratta di uno spazio intermedio, transizionale tra un rapporto con la realtà centrato su se stessi e il riconoscimento dei limiti che impone la presenza, autonoma dalla propria volontà, degli altri. Il suo uso consente ai bambini di immedesimarsi con l’alterità senza perdere la propria identità e alienarsi.

La capacità, radicata nella nostra infanzia, di identificarsi con l’altro mantenendo la reciproca differenza, mette sperimentalmente in tensione dentro di noi modi di essere diversi. Ciò ci getta oltre il nostro centro di gravità e ci pone in relazione con il mondo. L’assunzione interiore dell’altro che riconosce la sua diversità, è anche la condizione necessaria perché il nostro sentire e capire nasca dalla sedimentazione/elaborazione dell’esperienza e non scada nella mutevolezza continua e nell’impulsività (il regno della democrazia dei sondaggi).

Le identificazioni incrociate tra i cittadini creano il comune sentire, fondamento della città, fatto ugualmente di affinità e di diversità, di solidarietà e di conflitti. Lo straniero è cocostitutivo della comunità, soddisfa la sua necessità di sposare la libertà con l’intesa: mantiene aperta la tensione tra lontananza e prossimità e impedisce che la città smarrisca la pluralità delle sue espressioni e il senso stesso della sua esistenza.

Il bambino giocando costruisce, attraverso la familiarità, la sua fiducia verso ciò che gli è diverso. Lo straniero, colui che viene da fuori (a cominciare dagli aspetti sconosciuti delle persone care), non diventa per lui un estraneo, se riesce a inserirlo e a rappresentarlo nei legami con i suoi bambolotti.

È successo che abbiamo perso contatto con il bambino capace di dialogare con l’alterità, che abbiamo lasciato morire il suo bambolotto. Non è esatto dire che abbiamo paura dello straniero dentro e fuori di noi. Siamo diventati stranieri a noi stessi.