È possibile scrivere una storia del Post-Modernismo in architettura? La «biografia» di un movimento/stile architettonico ibrido, basato su codici multipli, la mescolanza di periodi contrapposti – passato, presente e futuro – che parla contemporaneamente alla cultura alta e bassa e fa della differenza e del pluralismo l’obiettivo di una comunicazione pubblica?

Charles Jencks non ha dubbi e risponde affermativamente nel suo Storia del Post-Modernismo (Postmedia books, pp. 314, 26 euro). E torna su questa convinzione, mettendola in pratica, a quasi quarant’anni dal suo libro-icona, The language of Post-Modern architecture: un’opera che ha avuto una grande importanza nell’attività professionale di molti architetti e archistar e, ancor di più, in altrettante carriere accademiche. Una narrazione del Post-Modernismo – è la teoria implicita di Jencks – non poteva che essere scritta in forma analoga, cioè decostruendo fino a sbriciolare il concetto stesso di storia.
Ambiguità da postfordismo
S’inizia cambiando in continuazione il registro interpretativo del Movimento Moderno in architettura, che viene presentato a volte come un «blocco storico» coeso, subordinato al potere e ai vari totalitarismi, e altre come un ambito contraddittorio, che anticipa e prefigura quel futuro votato al «post». Le dimostrazioni più eclatanti della subordinazione sarebbero state, secondo Jencks, la simultanea disponibilità di Le Corbusier nei confronti del fascismo italiano e del comunismo sovietico, le lettere intrise di «germanità» di Gropius a Goebbels, l’accettazione da parte di Mies van der Rohe dell’incarico per la progettazione del padiglione tedesco (in realtà nazista) nell’Esposizione universale di Bruxelles del 1935.
Alcune anticipazioni, invece, possono considerarsi la cappella di Ronchamp sempre di Le Corbusier, il Salk Institute a La Jolla di Louis Kahn e lo stadio olimpico di Tokyo di Kenzo Tange. In altri termini, la traiettoria del Movimento Moderno è stata segnata da un’ambivalenza che ha oscillato tra un’evoluzione lineare – andando incontro a un destino inevitabile, in sintonia con la rigidità dei suoi simboli e linguaggi architettonici e con una fede incrollabile nel progresso dello «spirito del tempo» – e la «tempesta perfetta» generata, tra l’altro, dalla dismisura della composizione delle anticipazioni architettoniche.

Il Post-Modernismo, invece, ha interpretato – e, per Jencks, tutt’ora continua a interpretare – la complessità e la pluralità delle rappresentazioni dello spazio e della composizione architettonica nell’epoca del postfordismo finanziarizzato. L’ambito urbano è concepito come se fosse un palinsesto sul quale le diverse generazioni possono scrivere la loro identità, non prima però che sia avvenuto il decentramento, il disorientamento e la decostruzione dei soggetti coinvolti. Il Post-Modernismo architettonico in quanto movimento «trans-storico», per essere raccontato ha bisogno di più modelli storiografici. Per sfuggire a una visione stereotipata, a giudizio dell’autore, si deve concepire la storia come un insieme di correnti a onde multiple che scompaiono e riemergono in alcuni periodi. Il Post-Modernismo scorre dagli anni ’60, aumentato nella portata anche dalla controcultura e dai movimenti di protesta, per ricevere il riconoscimento definitivo con la Biennale di Venezia del 1980 intitolata La presenza del passato. Giunge poi all’attualità con una radicalità eclettica che possiede un’energia sorprendente.

Tuttavia, secondo Jencks, la storia si fa anche con la disamina delle opere dei singoli architetti e l’aneddotica personale dello storico protagonista dei fatti. Un pudding difficile da cucinare se non privilegiando un solo ingrediente. Le opere degli architetti diventano le vere chiavi di lettura dell’architettura postmoderna. Una riduzione della complessità, operata da Jencks, con il supporto di tre categorie passepartout: il contrappunto contestuale, il segno «indessicale» e l’«adhocismo».
Il time-building postmoderno è una stratificazione di tempi e stili che parafrasa il passato e si relaziona al contesto come un camaleonte, permettendo sia una lettura culturalmente «alta» che «bassa» che rinvia alla metafora del contrappunto jazzistico. Il segno indessicale indica la presenza di una contemporanea variazione dei codici della forma architettonica e del contesto, una volta completata la costruzione. I progetti e gli interventi che combinano elementi preesistenti, giustapponendo ad hoc stili e funzioni, pervengono a risultati solo in parte previsti. In questo modo, Jencks arruola nel Post-Modernismo quasi tutta l’architettura contemporanea. Da Stirling a Isozaki, passando per Frank Gehry e Rem Koolhaas.
I criteri sono talmente ampli e vaghi da indurre l’autore, alla fine, a rivederli implicitamente, concentrandosi solo su due aspetti: l’ornamento semantico e l’edificio iconico. Un ornamento reso possibile dalla progettazione computerizzata in grado di implementare geometrie frattali e andamenti «caotici», in sintonia con le cosiddette scienze della complessità. Si abbattono in questo modo tutte quelle inibizioni che perduravano dall’inizio del secolo scorso, quando Adolf Loos paragonò l’ornamento in architettura a un delitto. Ma la vera posta in gioco è l’edificio iconico.

 

Dopo «l’effetto Bilbao» con il Guggenheim Museum progettato da Frank Gehry, che ha rappresentato un investimento che sta rendendo miliardi di euro con i milioni di visitatori, molte amministrazioni di città piccole e grandi hanno tentato di riprodurre un effetto simile. Sono alla ricerca di edifici «landmark» dai significanti enigmatici che suggeriscono molte interpretazioni, senza evocarne direttamente nessuna. Una strategia comunicativa pensata per suscitare l’interesse del turismo culturale e dei media.

 

Un «non-grattacielo»
I nuovi «monumenti» che aggrediscono il terreno, il cielo e il contesto in modo violento, senza mediazioni, stanno acquisendo una rilevanza pari ai più classici monumenti storici. Gli esempi della Cina e di Dubai e, in misura minore, gli ultimi grattacieli milanesi sono paradigmatici. Dal centro finanziario di Shangai al non-grattacielo di Koolhaas a Pechino per la televisione cinese per approdare al «sogno capitalista dopato con gli steroidi», per usare le parole di Mike Davis nella descrizione di Dubai, si assiste a una tecnica dello choc sottraendola dalla critica di Benjamin.

La domanda che sorge di fronte a questi esempi, che sono diventati punti di riferimento a livello internazionale, riguarda il ruolo degli architetti e dei progettisti rispetto le varie scale urbane e funzioni correlate. Jencks, nelle sue «conclusioni premature», riconosce che gli architetti postmoderni sono scesi a patti con i regimi autoritari se non reazionari e che la descrizione del Post-Modernismo come la «sovversione dall’interno dell’élite del potere», nei fatti si è tradotta nella collaborazione con gli obiettivi del potere. Ma non va oltre perché qui il libro si chiude dove in realtà avrebbe dovuto cominciare. Lasciando aperta la questione del rapporto del Post-Modernismo con il mercato e con un sistema economico e finanziario.

Immaginari ibridi
Le recenti analisi (J.T. Nealon, Post-postmodernism or the cultural logic of just in time capitalism, Stanford University, 2012) che sviluppano la teoria di Fredric Jameson di un postmoderno strettamente connesso a una precisa fase del tardocapitalismo non sembrano del tutto convincenti. Senza scomodare il Marx dell’introduzione ai Grundrisse che parla di sviluppo ineguale tra le forme della produzione sociale e i generi artistici, sarebbe però utile riprendere alcune pagine della Storia dell’architettura italiana di Manfredo Tafuri.

Il Post-Modernismo, in architettura, non fa altro che riprendere i caratteri più superficiali del Moderno portandoli all’eccesso. Per Tafuri, infatti, l’accezione migliore è quella di «ipermoderno»: qui domina una perfetta equivalenza delle forme e dei significati (e anche della mancanza di significato), un annullamento della storia grazie alla sua riduzione a campo di scorrerie visive.
Una sorta di «nichilismo imperfetto» che si limita a prendere atto delle trasformazioni sociali e urbane pur generando un immaginario che le ibrida e, a volte, le le travalica. È questo probabilmente l’aspetto performativo del Post-Modernismo: l’accettazione delle regole del gioco facendo uso di strumenti che superficialmente le sovvertono.