Chiunque dovesse leggere L’arringa di un pazzo (Adelphi «Biblioteca», traduzione di Francesco Bergamasco, pp. 284, euro 19,00) servendosi di una griglia interpretativa semplicemente ideologica, e magari aggiungendovi una spruzzatina di correttezza politica, di certo se ne sentirebbe imbarazzato e respinto. August Strindberg lo scrisse direttamente in francese tra il 1886 e il 1887 con quel medesimo furore, insieme accusatorio e difensivo, che contraddistingue tutto il suo ciclo narrativo di carattere autobiografico, da Il figlio di una serva a Inferno, da Lui e lei a Solo e ai Diari occulti, questi ultimi due pubblicati postumi – un lungo lavoro di scavo interiore e di autoanalisi, ossessivo e puntiglioso, che lo impegnò dal 1885 (aveva allora trentacinque anni) al 1903, nove anni prima della morte. Ma pure, e non di meno, il testo in questione (ma anche l’intero ciclo) viene squassato da una tempesta di maledizioni, da un repertorio di violente invettive, di insulti sanguinosi, da un fiume in piena di presunti complotti, di persecuzioni, di alleanze diaboliche ai danni di un uomo che dice di sentirsi piagato dal destino, messo all’indice e addirittura in croce da un consesso di misteriose divinità e, in primo luogo, al di sopra di ogni altra sventura, azzannato dalle fauci d’acciaio di un universo femminile ormai votato alla disubbidienza, alla rivolta, all’emancipazione. Strindberg vede ovunque, attorno a sé e fin dentro le mura domestiche, puttane e lesbiche ammantate di sociale santità, elevate a protagoniste eroiche dei tempi nuovi, celebrate in quanto emblemi di una modernità blasfema e distruttiva – un tradimento o un attentato all’ordine del mondo, una spinta fatale verso il definitivo trionfo del caos. Egli insomma è l’«idealista», lei una «criminale», una «squilibrata», una «ninfomane», una «vacca», una «mezza scimmia». L’animale morente, seppure ferito e assediato, vuole restaurare l’armonia perduta, ricostituire un centro andato in frantumi.
Ma L’arringa di un pazzo – la storia di un matrimonio, quello con la baronessa Siri von Essen, sposata nel 1877 e dalla quale Strindberg divorziò nel 1891 – andrà letto piuttosto come un «caso clinico», come il referto di una nevrosi di carattere paranoico, come il racconto di una esperienza innanzitutto psichica (fu Pasolini, nel 1973, recensendo il potente e visionario Inferno nella sua prima versione italiana completa che include Leggende e Giacobbe lotta, edizione accompagnata da un bellissimo saggio di Luciano Codignola, a usare il termine «esperienza», quasi a volerne sottolineare non tanto l’unicità quanto la peculiare natura di documento, di tentativo di diagnosi autoriflessa, introvertita, di messa in atto di un agonismo, di un antagonismo dalle dimensioni astrali). Strindberg lo annotava, sempre in Inferno, con sorprendente lucidità: «Vedo me stesso come l’oggetto innocente d’una ingiusta persecuzione. Gli ignoti mi impediscono di portar avanti la grande opera, e io dovrò infrangere gli ostacoli prima d’ottenere la corona del vincitore». Quel resoconto così tumultuoso e dirompente – seminato di conoscenze alchemiche, occultismo, teosofia, sincretismo religioso, chimica, medicina, grumi swedenborghiani, disarmate confessioni – va a collocarsi perfettamente nel clima dell’epoca, anzi la spiega e ne viene altrettanto rischiarato. L’orizzonte è dirimente: del 1886 è difatti la prefazione di Freud alle Lezioni sulle malattie del sistema nervoso del dottor Charcot, datati 1892-’95 sono gli Studi sull’isteria. E proprio negli stessi anni il presidente di Corte d’Appello Schreber intraprende quella discesa agli inferi che più tardi, nel 1903, si tradurrà nelle Memorie di un malato di nervi.
Occupandosi, com’è noto, proprio di questa mirabolante escrescenza psichica in un celebre saggio del 1910, Freud offre una decisiva chiave di lettura per meglio comprendere anche Strindberg e la sua nevrosi. «Per difendersi da una fantasia di desiderio omosessuale», scrive Freud, «il paziente reagisce precisamente con un delirio di persecuzione di un certo tipo», ovvero e ancora «nel delirio di persecuzione la deformazione consiste in una trasformazione dell’affetto. Ciò che doveva essere sentito interiormente come amore è percepito come odio proveniente dall’esterno».
Che questa sia la dinamica su cui si regge la lunga teoria di opere in forma di confessione, di autodifesa e di vendetta di Strindberg appare evidente. Delirio di redenzione, fantasia di evirazione, frustrazioni, complesso di inferiorità (figlio della serva appunto: «Il figlio del popolo ha conquistato la donna dalla pelle candida, il plebeo ha ottenuto l’amore di una giovane di nobili natali, il guardiano di porci ha mescolato con quello della principessa»), acute tendenze schizofreniche (evidenziate in un saggio di Jaspers): ecco gli elementi che rendono la lettura, nello specifico, dell’Arringa di un pazzo fors’anche imbarazzante, ma di sicuro perturbante per come viene investita da quella «terribilità» su cui, in una pagina di diario del 1915, mise l’accento già Kafka, il quale (occorre rammentarlo) considerava La stanza rossa (1879) un libro fondamentale della propria formazione.
E dunque, alla luce di una simile perizia, non sembra strano che Strindberg assuma la donna per propria antagonista. Né poteva essere più chiaro ed esplicito di quanto lo sia stato nell’introduzione a La signorina Julie, l’atto unico del 1888 che gli diede fama mondiale, laddove afferma: «La mezzafemmina è un tipo che si spiana la strada, che oggi si vende per il potere, le onorificenze, distinzioni e diplomi, come in passato per soldi, ed è un sintomo di degenerazione. Non è un buon elemento perché non ha resistenza, anche se purtroppo si perpetua con la sua pochezza; pare, infatti, che i degenerati sovente la preferiscano a livello inconscio, permettendole di riprodursi, generando esseri incerti che penano a sopravvivere e fortunatamente infine periscono, ora incapaci di adeguarsi alla realtà ora a causa dell’ineluttabile affioramento degli istinti repressi ora per la disperazione di non poter raggiungere il maschio».
Il maschio è il «vero signore della creazione, colui che ha creato la civiltà, la cultura portatrice di benefici, il creatore dei grandi sistemi di pensiero, delle arti, dei mestieri, di tutto», e volerlo detronizzare a favore delle donne, «bestie immonde», è una pura e semplice «provocazione», una bestemmia. Siri von Essen, nel romanzo, diventa Maria, forse non a caso. Poiché, per Strindberg, la tragedia, lo schianto, il cupio dissolvi, l’abisso è quando la Madonna si sveste di santità per indossare gli abiti della donna, così sottraendogli il «piacere della venerazione, del sacrificio, della sofferenza» e del non possesso di natura carnale. L’infedeltà, la perfidia della donna risiede, per lui, precisamente in questo movimento di approssimazione, di terrestrità: trasformarsi, in altri termini, in oggetto non più da adorare nella sua celeste e astratta lontananza, bensì da desiderare, umanamente.
Come ogni romanzo a tesi, anche Le Plaidoyer d’un fou – questo il titolo originale – non ammette sorprese né strappi. Esso corre – da Stoccolma a Parigi e alla Svizzera – inseguendo un approdo già deciso in partenza e percorrendo una strada obbligata, a suo modo coerente. Le scene da un matrimonio, sebbene molte volte comiche e grottesche, non riescono a negare al libro quel carattere che potremmo chiamare programmatico a cui l’autore teneva più di ogni altra cosa. E bisogna riconoscere a Strindberg di avere scritto in effetti, come egli dice in premessa, «un libro atroce». Ma sicuramente, date cause e premesse, meno atroce dell’infame libercolo dello psichiatra tedesco Moebius intitolato L’inferiorità mentale della donna, pubblicato nel 1900, proprio ad apertura di secolo. Non sappiamo se il commediografo svedese lo abbia letto. Certo lo avrebbe sottoscritto.