L’affaire della posta elettronica torna a tormentare Hillary Clinton. Alla vigilia del terzo dibattito televisivo con Donald Trump, previsto per stanotte a Las Vegas, nuovi documenti sembrerebbero indicare un’interferenza del Dipartimento di stato nelle indagini sul suo uso privato di comunicazioni riservate. L’accusa che da mesi viene rivolta all’ex segretario di stato è di aver trasferito decine di migliaia di messaggi elettronici sul suo Blackberry e su un server privato, esponendo segreti di stato a rischio di hackeraggio. Il caso è stato oggetto di indagine interna del dipartimento che in un rapporto dello scorso maggio non ha però ravvisato estremi di illecito nell’operato della Clinton e del suo staff.

Il rapporto non ha però chiuso il caso politico, i repubblicani e Trump in particolare hanno fatto di email-gate un argomento centrale della campagna presidenziale. Una seconda indagine del Fbi ha criticato l’operato di Clinton, pur non riscontrando illegalità.

Il caso ruota in gran parte attorno ai contenuti dei messaggi elettronici. Hillary Clinton ha sempre sostenuto che si trattasse di materiali di dominio pubblico. Malgrado le sue smentite, l’Fbi ha trovato che delle 35 mila email almeno un centinaio contenessero informazioni classificate come segrete o top-secret. Hillary si è scusata affermando di aver «appreso la lezione».

Gli ultimi documenti sembrano ora indicare che durante l’indagine, l’Fbi abbia subito pressioni da parte di funzionari del dipartimento di stato per non classificare come «segrete» alcune mail, compresa almeno una che si riferisce al caso Bengasi (l’attacco alla base Cia della città libica costò la vita a tre agenti americani e all’ambasciatore Cristopher Stevens). Il caso è diventato una cause celèbre della destra americana che considera Hillary diretta responsabile della «sconfitta» libica.

I documenti resi noti questa settimana  confermano in parte i sospetti di un insabbiamento clintoniano. Gli ex dipendenti di Hillary al dipartimento di stato avrebbero contrattato con gli agenti dell’Fbi per sminuire le sue responsabilità, offrendo agevolazioni alle operazioni Fbi in Iraq in cambio di una classificazione «segreta» di un numero minore di messaggi. Un portavoce del ministero ha respinto le accuse definendo gli scambi con l’Fbi «una normale trattativa interdipartimentale» con «normali» differenze di opinione sulla segretezza di alcune delle decine di migliaia di email in questione. Intanto Trump ha prevedibilmente nuovamente denunciato il caso come «peggio di Watergate» chiedendo le dimissioni dei funzionari implicate. La questione ha altresì nuovamente sottolineato la spaccatura fra il candidato ed il partito. «È un atto criminale – ha tuonato Trump – e i repubblicani vogliono fare un’altra inchiesta dopo le elezioni. Perché dopo? L’inchiesta bisogna farla subito. Prima del voto!»