Se il capo della Polizia leggerà questo intervento di Enrico Zucca, avrà modo di rendersi conto di una cosa: sulla vicenda del G8 genovese l’autore non risparmia critiche nemmeno nei confronti del proprio «corpo» di appartenenza, la magistratura.

Di più: addirittura nei confronti dell’ufficio nel quale ha prestato servizio per anni, la Procura della Repubblica del capoluogo ligure. E non certo sulla base di pregiudizi politici o inimicizie personali, ma in virtù di un principio elementare, ma ormai non più scontato nel nostro paese: il libero esercizio della ragione critica. Un uso della ragione kantianamente rigoroso, misurato, impossibile da confondere con un abuso «diffamatorio» della libertà di parola.

No: nella riflessione di Zucca, pm del processo per i fatti della Diaz, non c’è nulla di lesivo nei confronti dell’onorabilità della polizia, né di quella della magistratura, con buona pace di chi vorrebbe vederlo sottoposto ad azione disciplinare per le parole di verità dette la scorsa settimana in un’iniziativa pubblica e scritte anche nell’articolo che riproduciamo.

Quel che c’è, invece, è una riflessione utile a capire qualcosa che dovrebbe stare a cuore a tutti, ai rappresentanti istituzionali in primis: la (cattiva) condizione di salute dello stato costituzionale dei diritti nel quale (almeno formalmente) viviamo.

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E ciò vale non solo per il testo di Zucca, ma anche per tutti gli altri saggi raccolti nel prezioso volume della rivista Il Ponte (da poco disponibile nelle librerie) interamente dedicato alla giustizia italiana. In particolare, alla magistratura: al suo ruolo, ai suoi indirizzi di fondo, al suo autogoverno, alla crisi delle correnti «storiche» (a partire da Md), al rapporto con la politica e i poteri.

Voci di magistrati e operatori del diritto lontane anni luce dal coro di quel «partito dei giudici» esistito solo nelle caricature di stampo berlusconiano o vagheggiato, con opposte pulsioni, da giornalisti con la passione per le manette facili.

Agli autori non interessa lo schema usurato del «conflitto politica-magistratura», del tutto inutile per capire i mutamenti in corso nella vita concreta delle aule dei nostri tribunali.

Fra i quali, il curatore del volume, Livio Pepino, ne sottolinea uno che merita di essere ripreso: la «crisi di ruolo» dei magistrati stessi, che «ha portato – e sempre più porta – giudici e pubblici ministeri a ricercare e accettare eterogenei ruoli esterni, evidentemente ritenuti più gratificanti di quelli ordinari». Raffaele Cantone o il sottosegretario Cosimo Ferri sono solo gli esempi più evidenti (e assai diversi fra di loro), ma gli incarichi politico-amministrativi affidati a togati sono moltissimi, in barba al presunto «conflitto politica-magistratura».

I saggi raccolti affrontano numerose questioni: dalla giurisdizione del lavoro dopo il Jobs Act alle contraddizioni fra salute ed esigenze produttive come nei casi Eternit o Ilva, dalle condizioni delle carceri nel quarantennale del nuovo ordinamento penitenziario alla repressione penale del movimento No Tav.

Materiali utili sia a superare approcci superficiali ed emotivi a questioni complesse, sia a riconoscere le ragioni dei diritti anche quando le sentenze non riescono a «fare giustizia». Per questo, e altro ancora, c’è da augurarsi che il volume de Il Ponte possa conquistare l’attenzione e suscitare la discussione che merita.