La trattativa che dovrebbe portare al ritiro di un «significativo numero di emendamenti» da parte di Sel arriva in aula già morta. A ucciderla ci ha pensato Matteo Renzi, accettando la proposta di Vannino Chiti, capofila dei dissidenti Pd, però a modo suo: trasformando un’ipotesi di mediazione in resa incondizionata. L’ipotesi prospettata da Chiti a tutti i gruppi d’opposizione, la sera prima, prevedeva di chiudere i lavori l’8 agosto senza voto, per poi riprenderli a settembre e avere modo così di «riflettere» sulla possibilità di introdurre modifiche sostanziali al testo. Il premier la trasforma in un rinvio del voto finale al 2 settembre, senza accenni a possibili modifiche. Una settimanella in più, tanto per fare qualche giorno di spensierata vacanza. Non è un’ipotesi accettabile, e pensare che Renzi non lo sapesse sin dal primo momento significherebbe farlo molto più scemo di quanto non sia.
Quando Zanda, capogruppo Pd e zelante megafono del capo, ripropone la generosa offerta senza nemmeno peritarsi di impacchettarla comme il faut, la risposta delle opposizioni non può che essere il pollice verso. Uno dopo l’altro Gal, Lega e M5S ripetono che a fronte della piena indisponibilità mostrata da governo e maggioranza a ritirare i loro emendamenti non ci pensano per niente. Ma ne hanno presentati poche centinaia. Non sono loro a fare problema. Il verdetto reale spetta alla presidente del Gruppo Misto-Sel Loredana De Petris, che di emendamenti ne ha squadernati a migliaia. Neanche lei ha intenzione di piegarsi all’imposizione del governo. «Una settimana in più non serve a niente – dice – se non c’è la disponibilità di governo e maggioranza ad andare oltre questo testo. Ci vuole una mediazione alta e una risposta chiara del governo sulla sua disponibilità».
Quella risposta non arriva. Zanda si scalmana e dà per già chiusa la trattativa. I relatori Finocchiaro e Calderoli lasciano qualche spiraglietto in più. La ministra Boschi solo per finta: «Abbiamo dimostrato la nostra disponibilità in commissione e lavorando con i relatori. Siamo pronti a discutere ancora ma non di fronte al ricatto dell’ostruzionismo. La minoranza non può affermarsi a scapito della maggioranza».
In realtà Sel non chiede affatto al governo di accettare in bianco le sue proposte. Mira a ottenere una dichiarazione di disponibilità da parte del governo e poi ad aprire una trattativa complessiva sui principali punti critici: non tanto il Senato elettivo quanto il combinato disposto tra Italicum e riforma della camera alta, quello che Fratoianni definisce «il parlamento dei nominati», poi l’innalzamento delle soglie per referendum e leggi di iniziativa popolare, la garanzia non limitata a un volatile tweet di sottoporre comunque a referendum confermativo la riforma, ma anche la cancellazione del pareggio di bilancio come vincolo costituzionale.
Ma Renzi non intende trattare su niente. Oltre la resa incondizionata non va. In parte non vuole, in parte non può. La malattia diplomatica di Berlusconi, che ha fatto saltare l’incontro previsto per ieri, è eloquente: Fi vuole garanzie sull’Italicum. Potrebbe accettare il parziale inserimento delle preferenze e l’innalzamento della soglia per accedere al premio di maggioranza, ma su quella di sbarramento non si discute.
Porte sbarrate dunque. Nella riunione dei capigruppo il presidente Grasso propone di accantonare gli articoli più roventi, l’1 e il 2, per partire dal 3. Niente da fare. Sel organizza sui due piedi una conferenza stampa, Fratoianni, la De Petris e due ex grillini, Francesco Campanella e Maria Mussini, ripetono l’offerta di dialogo al governo, Fratoianni aggiunge «come prima condizione» il ripristino di un rapporto rispettoso con le opposizioni, sin qui liquidate come congrega di gufi, ecc. Dal governo non arriva risposta. Ritirare gli emendamenti non è possibile
Anzi no. Perché poco dopo piomba al Senato il sottosegretario Lotti, con un messaggino palesemente ispirato dall’inquilino di palazzo Chigi. «La posizione di Sel preclude ogni alleanza futura, soprattutto sul territorio». In italiano si chiama rappresaglia ed è un linea di durezza inaudita, ben oltre i confini del ricatto. Quanto sia realistica è dubbio, visto che in molte regioni l’alleanza con Sel è determinante per il Pd.
L’intenzione di spaccare Sel è palese, ed è una coincidenza indicativa che quasi in contemporanea con il diktat l’assemblea provinciale di Siena decida di lasciare il partito. Vendola tiene duro: «La svolta politica più veloce del mondo», ironizza su Twitter. E poi: «Sette senatori di Sel sono il problema dell’Italia?». Sel e tutte le opposizioni ieri non si sono arrese, né lo faranno. Ma la tendenza permanente alla minaccia e alla rappresaglia di Renzi non è un buon viatico per la sua Italia.