Lungo la direttrice Calabria-Lombardia-Veneto-Cina, la ‘ndrangheta si è mossa per fare business. L’operazione Porto franco ha scoperchiato un sistema marcio di prestanome, intermediari, «scatole vuote» e faccendieri, dietro cui si nascondeva la vecchia ‘ndrangheta dei Pesce di Gioia Tauro. All’alba di ieri, su mandato della Dda di Reggio, si è proceduto così all’esecuzione di 13 ordinanze di custodia cautelare, al sequestro del patrimonio di 23 imprese per un valore di 56 milioni. Il condizionamento dei settori più produttivi, prima affidato ai proventi delle estorsioni, si è trasformato acquisendo vocazione imprenditoriale.

Le indagini sono iniziate dopo verifiche fiscali su imprese di trasporto e servizi per il porto di Gioia. Le cosche avevano organizzato un consistente riciclaggio di denaro con la simulazione di acquisto e vendita di carburante; emettendo fatture false con cui creare i fondi che venivano poi dirottati nelle casse delle ‘ndrine. L’inchiesta ha svelato l’esistenza di forti infiltrazioni delle cosche nell’indotto del terziario dell’area portuale. I Pesce importavano merce contraffatta dalla Cina. E avevano oliato un sofisticato sistema truffaldino giovandosi di una miriade di finte cooperative operanti a Verona. Che avrebbero creato uno schermo giuridico alle imprese le quali, una volta esternalizzati i lavoratori e i servizi, hanno continuato a operare non preoccupandosi del pagamento degli oneri erariali.

Le cooperative di lavoro si sono rivelate così società inesistenti, «scatole vuote» che hanno chiuso dopo breve tempo. E i loro rappresentanti sono risultati prestanome nullatenenti. Benvenuti nella ‘ndrangheta 2.0.