«Un pensionato che si occupa di cose religiose vuole conoscerti». «Mah… sì… se proprio ci tiene». Quando si presentò come Sergio Quinzio, non potevo crederci. Di Quinzio, che stava allora portando a termine il suo Commento alla Bibbia in quattro volumi, poi ristampato in uno solo, conoscevo Cristianesimo dell’inizio e della fine, una rivelazione, per me, così come veri e propri lampi nell’universale grigiore (ma era il buio di anni bui) erano gli articoli che andava pubblicando sulla Stampa di Torino.

Accadeva nel 1977 presso il Dipartimento di Filosofia all’università di Perugia. «Ma io sono un pensionato che si occupa di cose religiose!», si schermì lui, mentre io tentavo di dirgli che mai e poi mai potevo immaginare che fosse quale lui si autodefiniva. Però così stavano le cose. Infatti si era congedato dalla Guardia di Finanza, dove aveva prestato servizio per un certo numero di anni pur avendo nella testa e nel cuore la Bibbia e soltanto la Bibbia, ritirandosi poi a vivere in un paesino delle Marche, lì chiamato da Gino Girolomoni, contadino e pioniere dell’agricoltura biologica. I due uomini erano affascinati da questioni del tipo: se fosse sentimento apocalittico più autentico quello di chi alla fine dei tempi coltiva la terra come ai tempi dell’inizio, o di chi prende atto della catastrofe in corso e ne patisce l’immane disastro.

Fin dal primo incontro venne fuori il nome di Guido Ceronetti; quale la ragione dell’accostamento, non saprei dire, considerando l’«abisso» che separava Quinzio, per cui non si dava altro senso possibile della vita e della storia che la Croce, e Ceronetti, che trovava semplicemente ripugnante la fede nella resurrezione dei corpi. Ma scoprire che entrambi avevano una stessa convinzione; che questa convinzione li portasse a vedere nella dimensione religiosa il campo in cui si decide delle sole cose importanti e che ciò li avesse spinti a un confronto proprio in quel campo, facendo di loro, al tempo stesso, due grandi amici e due grandi antagonisti, non fu affatto una sorpresa.

Di quel combattimento spirituale durato più di un quarto di secolo (dalla fine del 1968 al principio del 1996), di quella lotta senza esclusione di colpi (sia Quinzio sia Ceronetti amavano la boxe, non avendola però mai praticata), abbiamo ora la documentazione. Ossia le lettere che essi si sono scambiati e che attestano come quel «tentativo di colmare l’abisso» abbia prodotto il risultato opposto e tuttavia faccia luce su una vicenda intellettuale fra le più singolari e intense del Novecento (Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l’abisso, a cura di Giovanni Marinangeli, Adelphi «La collana dei casi», pp. 444, euro  34,00).

Impossibile, almeno per me, leggere senza pormi come arbitro. E per giunta come arbitro parziale, coinvolto nella diatriba. Andò così. Dopo quel nostro primo incontro, Quinzio dette a Ceronetti un mio libro e fece anche di più: fece in modo che Ceronetti venisse a trovarmi. Del libro Ceronetti scrisse il peggio che ne potesse scrivere, forse al di là dei demeriti di quel mio lavoro accademico. Della visita riferì invece il meglio, con generosità toccante. Non oso citare, né il peggio né il meglio: troppo, sia di qua che di là. Il lettore, se lo vorrà, troverà conferma rispettivamente alle lettere 165 e 220.

Sarà pure una nuova digressione inelegantemente personalistica, questa di cui sopra, però doverosa. E comunque, scavalcato l’ostacolo, andiamo a vedere quali sono i termini di una contesa che vede da una parte un uomo di fede, che scrive per disperazione, e dall’altra un pessimista metafisico che si consola scrivendo. Non potrebbero essere più distanti. E ostili, nonostante li accomuni qualcosa che molto somiglia all’amore fraterno. In parole povere, Quinzio accusa Ceronetti di «spiritualismo». Imputazione grave, ai suoi occhi. Perché significa essere evasivi, non affrontare i nodi reali, stemperare le contraddizioni nel simbolico, nell’estetico, nel letterario. A sua volta Ceronetti accusa Quinzio di «materialismo». E quindi di disconoscere quanto il religioso ha di più propriamente suo. Nel religioso tutto è altro da come appare ai sensi, tutto è allegoria, metafora. Siamo, per l’appunto, nel regno della trascendenza.

Non possiamo non notare qui come i due avversari, nel punto di massima incandescenza dello scontro, incrocino le armi: alla lettera. In una sorta di stretta che li avvinghia. Al punto che vien da chiedersi: chi è chi? Quinzio guarda alla letteratura con sospetto, odia il mito: un espediente, a lui sembra, buono unicamente per gettare sulla realtà, che è puro orrore, il velo ingannevole della bellezza. Quanto alla filosofia, non esita a scagliarsi contro di essa, e a opporre alla sapienza degli uomini la follia di Dio. A lui comunque importa della salvezza, non della verità. A sua volta Ceronetti chiede di essere considerato anzitutto un poeta e poi un filosofo. È nella poesia e nella filosofia che lui cerca la verità che salva. Comunque rivendica per sé quei titoli, non altri: poeta, filosofo.
Eppure in forza di che cosa Quinzio salva la parola di Dio dal naufragio e dall’insignificanza cui sono destinate tutte le altre parole, se non riconoscendola e riprendendola, esattamemente come fa il mitografo che sempre di nuovo racconta il mito di cui si è appropriato come della sola cosa essenziale? Tutto ciò senza l’ausilio della filologia o del metodo storico-critico, che qui non servono, ma unicamente in fedeltà al nocciolo duro del mito che la parola più depauperata e sfigurata nondimeno custodisce. E c’è di più. C’è che la sua visione apocalittica o cenotica della storia, per cui la storia è svuotamento catastrofale del senso, ogni senso (fino al ribaltamento finale), è sostenuta da una filosofia della storia tutt’altro che ingenua. Quinzio dava del tu a non pochi dei filosofi suoi interlocutori (Cacciari, Vattimo, Severino…)

Quanto a Ceronetti, non tacerò: anche se dirlo mi dispiace e dicendolo so di procuragli dolore. La sua poesia non è mai sua, ma sempre di altri. Egli è un maestro nello sprigionare risonanze poetiche da questo o quel poeta latino, greco, italiano, francese, spagnolo, così come lo è quando traduce testi biblici. Ma quando è poeta in proprio, la fatica della versificazione gli si ritorce contro e oscura la poesia da lui invocata ma poi lasciata spegnere. Il filologo la vince sul poeta. Qualcosa del genere va detto del suo rapporto con la filosofia. Illuminanti certi suoi scavi nei meandri del manicheismo o del pensiero di Spinoza. Ma il monismo di Spinoza e il dualismo tragico insieme non stanno proprio, per la contraddizion che nol consente. Nel momento in cui abbracci l’uno e l’altro non sei più un filosofo. Semmai un eccellente ermeneuta, tale proprio perché non ti curi di un punto di vista coerente e saldo.

Dunque: vale per Quinzio quel che vale per Ceronetti. Una simmetria rovesciata governa le mosse dei due contendenti. Ceronetti non è quel che vuole essere: non è poeta, non è filosofo. Ed è quello che è – un esegeta, un interprete, un impareggiabile commentatore – in virtù di quel che non è. Viceversa Quinzio è quel che non vuole essere. È un poeta ed è un filosofo, perché è un poeta chi nel Commento alla Bibbia ha saputo far risuonare qualcosa come un suono originario (il suono dello sofar, avrebbe detto Quinzio), così come è un filosofo chi nel Cristianesimo dell’inizio e della fine e negli altri suoi libri, da La fede sepolta a Mysterium iniquitatis fino a La sconfitta di Dio, ha saputo fare i conti con la migliore filosofia d’oggi.