«L’economia tedesca rimane solida»: ne è convinta la Bundesbank, malgrado ieri abbia rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita. Per l’istituto guidato da Jens Weidmann, arcinemico di Mario Draghi, il pil della Germania aumenterà nell’anno in corso solo dell’1,4%, e nel 2015 appena dell’1%: precedenti valutazioni fissavano le stime, rispettivamente, all’1,8% e al 2%. Non un granché, ma «niente panico», dicono gli economisti della banca centrale: «Presto si tornerà a correre». Serenità anche al Ministero dell’industria: i dati diffusi ieri dall’Istituto di statistica mostrano che gli ordinativi per le aziende sono in crescita (il dato di ottobre è +2,5% rispetto al mese anteriore), in particolare grazie alla domanda interna. A sentire la classe dirigente tedesca, quindi, tutto procede bene. Eppure i problemi non mancano.

Giovedì notte ha chiuso definitivamente i battenti la fabbrica Opel di Bochum nel Land del Nordreno-Westfalia: 3000 lavoratori hanno perso il loro posto, e di fronte a loro per il momento c’è soltanto incertezza. Gli operai hanno tentato di resistere, ma la direzione dell’azienda l’ha avuta vinta: eccesso di capacità produttiva, quello stabilimento era un ramo secco da tagliare. La fine delle attività di quella fabbrica hanno pesanti ripercussioni sociali sulla zona di Bochum, una delle città della Germania occidentale in cui il disagio supera il benessere: disoccupazione sopra la media nazionale (9,5% contro il 6,3%) e assenza di prospettive.

Per quelli che un impiego ce l’hanno, invece, il problema sono gli orari troppo pesanti. È questo il risultato dell’annuale report sulle condizioni di lavoro curato dalla confederazione sindacale unitaria Dgb e reso noto giovedì. Secondo i dati diffusi dal rapporto, che si basano su interviste a un campione rappresentativo della popolazione tedesca, il 62% lavora oltre 40 ore alla settimana, e il 56% lo fa in una condizione di stress. «Bisogna riequilibrare i carichi», sostengono i rappresentanti dei lavoratori. Particolarmente in difficoltà sono le persone oltre i 55 anni: una su due vorrebbe poter ridurre gradualmente il proprio orario, perché convinta che altrimenti non potrà arrivare in salute all’età della pensione. Per il sindacato occorre una strategia contro lo stress da lavoro che coinvolga anche governo e imprese.

E in questi giorni è riesplosa anche la polemica sul Trattato di libero scambio fra Unione europea e Stati uniti (Ttip). L’epicentro della discussione è all’interno della Spd del vicecancelliere e ministro dell’industria Sigmar Gabriel. La base del partito è scettica di fronte all’accordo sul commercio, che invece il capo difende, anche se con molti distinguo. Il sindacato è su una posizione di non totale chiusura, ma avverte che potrà accettare una firma sul trattato solo con precise garanzie sul mantenimento degli standard di protezione sociale dei lavoratori europei. Per sciogliere il nodo, Gabriel ha annunciato che convocherà un congresso ad hoc del partito. In quella sede darà battaglia la sinistra interna, che chiede al vicecancelliere di non sottoscrivere nemmeno il Ceta, l’accordo con il Canada che rappresenta una sorta di prova generale del Ttip. Gabriel si è invece detto pronto a farlo in ogni caso, anche se il Ceta dovesse contenere i controversi tribunali arbitrali a difesa degli investimenti delle multinazionali.

Il leader della Spd sa di avere una brutta gatta da pelare. Come ha sottolineato Ulrike Herrmann, firma delle pagine economiche del quotidiano die Taz, «in realtà sarebbe chiaro che Gabriel non può sottoscrivere il Ttip. Il rischio è troppo alto, sia per la Germania, sia per la Spd». Il problema – ragiona Herrmann – è che il suo rifiuto significherebbe bloccare l’intero processo, mettendosi contro Merkel e i governi liberisti di mezza Europa. Ma, al tempo stesso, lo stop al Ttip sarebbe ritenuto una vittoria di Attac e delle opposizioni, e non della Spd. Un dilemma difficile anche per uno stratega esperto come Gabriel.