Si comincia nel buio, in una sorta di incubo soft: una voce dà istruzioni per uscire da un cunicolo, bisognerà agire su leve, cavi di diverso colore, diverse sfumature di blu; l’altra voce, che è la stessa, ha paura, esita, chiede aiuto. I congegni da tastare nel buio non sono che parole, non sono che i loro nomi. Ma poi la luce: si nasce. È lo spettacolo di Alessandro Bergonzoni, Nessi, scritto e diretto insieme a Riccardo Rodolfi, in scena al Vittoria di Roma fino al 20 novembre (il tour proseguirà poi a Genova e Verona).

Il sipario si leva, l’attore è sul palco e l’incubo si trasforma in un’incubatrice, con la quale Bergonzoni mette le mani sul linguaggio per portarlo dal punto di morte al «punto di vita», per rimetterci al mondo tirati fuori dai cliché grazie alle prime complici di uno scialbo sopravviversi, le nostre stesse parole.

Finché non sciogliamo la lingua non siamo ancora nati. Il punto è quel che c’è dietro le parole, il punto è come si scioglierebbe la lingua se i luoghi che attraversa fossero un po’ meno comuni. Troveremmo allora «le ragioni sconosciute, non quelle conosciute». Invece di dire: «Un figlio? Non lo concepisco», un uomo potrebbe metterlo al mondo e chiamarlo Invano. «È nato Invano». E dare luce a una storia che è tutta una capriola rivelatrice di sensi da non dire. «Di solito l’artista vuole lasciare un segno: qui si tratta invece di partire da un segno», e ogni espressione che ci ritroviamo in bocca vederla doppia, sentirla doppia. Generando infinite possibilità nascoste, liberatrici: «I credenti, i non credenti… Va bene, ma gli incredibili?».

È un «giro di vite» (i nati, i morti, uno al secondo) e una fatale bonifica della lingua, agìta sul rumore di fondo (e di mondo) che ci fa essere già parlati prima ancora che apriamo la bocca, come alcuni arrivano a una festa «già mangiati». Ogni volta che parliamo dobbiamo rimetterci al mondo, e «fare nesso», fare nesso spinto, nesso selvaggio, unire le ragioni umane dei «gialì» e dei «gialà» con le regioni distanti di noi «sonsolqua». Abbiamo i nostri santini, i quadretti, le magliette con i «grandi personaggi» e soffochiamo nel solipsismo: stiamo sempre a riempirci la bocca con il «male minore», ma come la mettiamo se è diventato maggiorenne? Allora il gioco di parole non è una dinoccolata e distratta esibizione di funambolismo, ma un atto precisamente politico: aumento di vitalità ed elettrica presa di coscienza con cui la lingua, e la mente dis-incantata che le tiene dietro, fa «voto di vastità».