Cent’anni non sono bastati. Ed ecco allora che il dibattito sul genocidio armeno torna a dividere e provoca reazioni esplosive. Non solo un tema per storici, ma un nodo irrisolto – anche politico – che tiene in ballo le diplomazie di mezzo mondo. Una questione che va al di là delle relazioni fra Berlino e Ankara, e che finisce per avere un forte impatto anche sulle relazioni fra Armenia e Turchia, e sui fragili equilibri del Caucaso, dove tira aria di guerra.

Tensioni che finiscono anche per ripercuotersi sui rapporti sempre più tesi fra la Russia – tradizionale alleata dell’Armenia – e la Turchia. Subito dopo il voto nel Bundestag, non a caso, è arrivata la reazione del Cremlino. Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha definito la risoluzione sul genocidio – non senza soddisfazione, c’è da giurarci – una «questione di politica interna» per Berlino. Un ennesimo schiaffo ad Ankara da parte di Putin, che – già presente a Yerevan per il centenario del genocidio, nel 2015 – ne approfitta per ribadire il suo ruolo di padre e padrone dell’Armenia, e insieme la sua distanza dalla Turchia.

Siamo lontani più che mai dal tentativo di riavvicinamento fra Turchia e Armenia, portato avanti senza successo fra 2008 e 2010. Paesi a lungo divisi dalla guerra fredda, anche dopo l’indipendenza di Yerevan dall’Urss, nel 1991, non si è riusciti a raggiungere la normalità di rapporti. Permane il blocco unilaterale dei confini con l’Armenia, da parte della Turchia, e mancano rappresentanze diplomatiche fra i due paesi. Pesano le ombre del passato, certo, e in particolare quella parola, «genocidio», che grava come un macigno sulla coscienza di Ankara. Ma pesa anche, sempre di più, anche il conflitto del Nagorno-Karabakh, che rischia di finire fuori controllo.

A aprile in Nagorno-Karabakh, conteso fra Armenia e Azerbaigian – paese alleato della Turchia – si è combattuto come non capitava da vent’anni. Trecento morti in pochi giorni, carri armati, droni e elicotteri abbattuti in quella che i locali chiamano la guerra dei quattro giorni, fra 2 e 5 aprile. Per l’Armenia si tratta di mantenere il controllo su un territorio strappato a Baku negli anni novanta e che rivendica come storicamente armeno.

Per l’Azerbaigian, invece, di riconquistare una regione che, a livello di riconoscimento internazionale, rimane parte del suo territorio, seppure di fatto in mano alle truppe armene. In tutto questo, la Turchia non fa mistero della sua vicinanza a Baku. Proprio nei giorni di massima tensione Erdogan ebbe a dichiarare che la Turchia sarà con Baku «fino alla fine». Tutti questi fili ruotano attorno a un nodo, quello delle parola «genocidio». Non solo una questione di termini, quindi.

Ci sono in ballo interessi enormi, dalle armi alle risorse – gas e petrolio in primo luogo – di cui l’Azerbaigian è ricco, e che fanno gola a molti. Quella parola, poi, definisce una responsabilità storica precisa: di aver ordito e organizzato sistematicamente lo sterminio degli armeni nel 1915. Una responsabilità paragonabile a quella dei nazisti nel concepimento e nella messa in opera della Shoah, e che Ankara non è disposta a accettare. Nella danza macabra della diplomazia internazionale, non c’è solo la Turchia a voler negare il passato. Cent’anni di silenzio non ci sarebbero stati se Ankara non avesse trovato ottimi alleati nel suo negazionismo. Fra questi, anche gli Stati uniti. Le promesse elettorali di Obama di pronunciare quella parola, «genocidio», sono cadute nel vuoto. Nessun presidente degli Usa ha mai osato dirla fino ad oggi.

Neanche Israele, nonostante l’impegno di tanti ebrei per la causa del genocidio armeno, ha mai osato promuovere un riconoscimento ufficiale. La vicinanza politica e militare prima con la Turchia, e oggi con l’Azerbaigian (che rifornisce di armi) sono bastate a impedirlo.
La vittoria simbolica per l’Armenia, rischia di trasformarsi in una sconfitta sul campo. Yerevan è sola, circondata da avversari molto più potenti. La guerra dei quattro giorni è un monito di quello che potrebbe avvenire in un prossimo futuro, quando le armi, e non i parlamenti, potrebbero avere l’ultima parola.